Ma alla fin fine, tutti ‘sti mostri sacri della scrittura che imperversano un po’ dovunque cosa comunicano di interessante? O è solo nebbiolina e loro sono solo semplici, banali, mostri?
Ecco, Pippo Russo ne L’importo della ferita e altre storie, edito da Clichy, ci apre gli occhi sui maggiori “casi editoriali & letterari” degli ultimi tempi e ci fa notare le proporzioni di uno spreco – quello appunto di un certo tipo di carta stampata - che, magia del marketing, viene gabellato per spaccio di cultura.
Con meticolosità e competenza certosine, l’autore ha analizzato alcune delle penne più celebrate di oggi e ne ha, sistematicamente, smontato le opere principali. I talenti di Faletti, Volo, Moccia, Pupo (sì, il cantante) e compagnia scrivente, sono stati esaminati al microscopio, con risultati a dir poco desolanti: grammatica sperimentale, sintassi innovativa e contenuti privi di senso, oltre a strafalcioni che meriterebbero l’istituzione di un premio Nobel a parte. E il bello è che essi influiscono, nemmeno tanto leggermente, sulla letteratura, soprattutto in punto vendite.
Un rigoroso manifesto di lettura, per mutuare una frase dell’autore, indispensabile se si vuole affrontare un’opera letteraria, se la si vuole sezionare, per capirne ed evidenziarne le peculiarità, al di là delle inevitabili stroncature, come ad esempio quelle inflitte alle opere di Fabio Volo, che escono a dir poco malconce (e giustamente direi).
Il titolo stesso ricalca una frase apparsa su una pagina di prosa falettiana, dove evidentemente si ritiene – con la benedizione dell'editor - che le ferite possano tranquillamente avere degli importi (a dire il vero, qualcuno ha avuto come la sensazione che certe frasi siano il risultato di una traduzione automatica dall’inglese all’italiano, un po' come se lui – il sior Faletti - pensasse prima in inglese per poi tradurre, chissà come, in italiano i suoi capolavori; no, no, non si è voluto insinuare che qualcuno scriva per lui in inglese e che poi qualcun altro traduca un po’ maccheronicamente, quasi volesse inventare una neolingua che possa soppiantare l'esperanto…).
Ora, qualcuno potrebbe obiettare che il rigore sintattico-grammaticale invocato in questo libro sia fuori luogo - magari più appropriato per una lingua morta, tipo il latino -, e che l’ostinarsi su alcuni passaggi sia sintomo di una pignoleria fine a se stessa, ma è anche opportuno rilevare che eventuali “licenze poetiche”, anche in prosa, sono concesse solo a chi dimostra di avere una padronanza della lingua pressoché perfetta, peculiarità, questa, che nessuno degli autori esaminati ha dimostrato di possedere e, a ogni buon conto, l’autore non disquisisce sul merito delle singole opere analizzate (fatti salvi rarissimi casi in cui o tale merito è sotto la soglia della decenza o, al contrario, assume una caratura notevole), ma ne deplora soprattutto la sciatteria stilistica.
Pippo Russo, docente universitario, scrittore, giornalista e blogger, vuol celebrare – con uno stile lineare, che a tratti dà luogo a passaggi esilaranti - il valore, inestimabile, delle parole e fa notare che, anche se sembrano gratuite, il loro uso può dar luogo a esplosioni peggiori di quelle nucleari. Per dirla con le sue parole “Era beddu lu pitrusinu. Ci ì la atta e ci piscià” (era bello il prezzemolo, ma arrivò la gatta e ci fece la pipì sopra, rovinandolo), ossia: l’autore era riuscito a scrivere un qualcosa che, obiettivamente, non era bellissimo ma nemmeno pessimo, ma ha aggiunto un’ultima frase che anziché ha rovinato tutto.
Ma, alla fin fine, alcuni editori guardano solo agli importi.