Questo lo avevo scritto sul vecchio blog alle ore 15:02 del giorno 23/01/2010
Racconti che edificano mondi minimi di una sola pagina, universi fatti di storie interstiziali: nascono in rete per essere poi stampati e smarriti lungo i viali, sugli autobus, nelle tasche dei passanti, nascosti ma in attesa di svelamento. Parole come matrici delle cose, anche in pagine di carta, scritte e seminate a far bastione e contrafforte al mondo, per disegnare una nuova cartografia del reale e dell’irreale. Fiumi che scompaiono dopo un breve corso, ma continuano un viaggio carsico che rispunta chissà dove, chissà quando. Romanzi in atto unico, dispersi per essere ritrovati e per far giungere altri fin qui, a raccontare ancora e far esistere sempre nuovi mondi. Il progetto è aperto a tutti.
Non avevo mai visto gli ippocastani, non ne avevo nemmeno mai sentito parlare. A Sanremo non c’erano. C’erano le palme e quelle siepi di pitosforo che, in grandissimi vasi, recintavano i dehors dei locali pubblici, dall’odore acre e strano che ancora adesso associo al cono gelato che mi compravano quando ero piccolo nelle gelaterie vicine ai pitosfori.
Non avevo nemmeno mai visto la neve e lì ne sarebbe scesa tanta, anche sui ricci e sulle foglie degli ippocastani. Per giorni ho ripetuto “ippocastano”, una parola dal suono secco, esplosivo.
Le battaglie di ricci e di castagne, anzi di “castagne matte”, così si chiamano i frutti dell’ippocastano, riempivano i nostri pomeriggi autun-invernali e di lividi le facce e le mani dei maschietti, mentre sulle bancarelle improvvisate dalle femmine – e che stessero lontane, tra di loro – una castagna matta poteva essere tutto: dall’etto di stracchino, al pezzo di focaccia, al detersivo.
Una volta provai ad assaggiare una castagna matta, aveva un sapore amaro, immangiabile. Mi vide un barista: “se avete fame venite pure qui che vi do qualcosa”. “… se avete fame…”. Spesso pensavo che l'ippocastano fosse un albero completamente inutile, come la mia presenza lì.
Fortunatamente provenivamo da un altro paese ligure, altrimenti i miei genitori, una campana ed un emiliano, avrebbero fatto la fine degli altri immigrati arrivati li, assieme a noi nel 1969, l’anno della luna, a cercare fortuna: ghettizzati. Ma pur sempre felici.
Ma io rivolevo i pitosfori e le palme, e lì non crescevano. Qualche volta ho anche pianto, mi mancavano da morire, ed il gelato non aveva lo stesso sapore. A 5 anni il mondo ti sovrasta e non riesci a capire perché di colpo, dal sole e dall’odore del mare di Sanremo, ti puoi trovare al gelo dell’entroterra ligure; un gelo secco di montagna.
E poi quegli inverni rigidi che ti sembra che le orecchie ti si siano cristallizzate e hai paura di toccarle perché temi che potrebbero frantumarsi. A Sanremo l’inverno era gradevole, non sapevo cosa fosse il freddo ma lì, sulle montagne liguri, anche le estati erano fresche.
“AFFITASI STANSE E CASE BASTA CHE NON SIENO MERIDIONALI” ha campeggiato sulla facciata di qualche casa fino agli anni ’80, fino a che un giorno qualcuno ha strappato quel cartello, affogando con quel gesto il coraggio di chi lo aveva scritto.
I miei genitori avevano pagato il dazio già a Sanremo, ma probabilmente non se ne sono nemmeno accorti. Nelle grandi città tutto si diluisce e la voglia - sana, intensa, pervicace e solare - di uscire dalla disperazione ha curato ogni ferita. Forse ghettizzati, ma sicuramente felici.
Il destino si è replicato e mi sono trovato dall’oggi al domani in una terra dove il concetto di “continentale” è difficile da spiegare, ma facilissimo da comprendere, per chi lo è. Non avevo mai visto una pecora né un nuraghe, ma l’esempio di chi mi ha portato dalle palme agli ippocastani mi è stato di aiuto. Vitale direi, visto che ho imparato a convivere decorosamente con un nobile popolo che comunque ti si rivolga, in italiano o nella sua antica lingua, ti comunica immediatamente un fine razzismo, gentile e indolore. Fortunatamente oggi scalfito dal progresso e dalla convivenza. Ma resti sempre continentale.
Quando torno al mio paese freddo - quello caldo è Sanremo, ed è sempre il mio - rivedo quegli ippocastani, sono sempre al loro posto, ma per terra non c’è più nulla. I ricci e le castagne e le foglie vengono rimosse da solerti spazzini ancor prima che si posino per terra. Ma io vorrei giocarci ancora e con gli amici abbiamo deciso che un giorno ci arrampicheremo sugli alberi per farci una provvista di qualche quintale, poi faremo una battaglia epica sul piazzale della Chiesa e, quando avremo finito tutte le munizioni, pieni di lividi antichi su tutto il corpo, andremo a saccheggiare le bancarelle delle femmine – chi maestra, chi commerciante, chi casalinga – improvvisate sulle panchine, o compreremo e fuggiremo senza pagare (“quanto costa?”, “Tre foglie, grazie”, “E questo?”, “Una foglia e 4 sassolini”). Giuriamo? Ok giurato e lo facciamo. Poi riapro i vecchi libri, in cui avevo messo alcune foglie di ippocastano a seccare. Sono ancora li, sanno di passato.
Adesso che ci penso eravamo la maggioranza nel paese freddo, noi figli di immigrati terroni; adesso che ci penso ci guardavano dalla testa ai piedi, tra lo schifato ed il divertito; adesso che ci penso qualcuno sul campetto diceva:
“ma cosa ci sei venuto a fare qui? Non potevi restare a casa tua, scusa noi mica veniamo da voi”.
“Ricordati che io qui ci sono nata e voialtri siete venuti a starci, quindi per favore tacete” mi disse una compunta negoziante. Di quelle vere, non delle panchine. Ma non capivo cosa avessi io di diverso. Erano loro i diversi, loro e quegli inutili ippocastani.
“Sei cresciuto a scatolette e a carne continentale, che non serve”.
L’altra metà del dazio l’ho pagata dopo.
Qualcuno mi ha detto razzista, qualcun altro fascista. Persone che non si sono mai spostate dal loro nido e non immaginano nemmeno quanto può sapere, nostro malgrado, "di sale lo pane altrui e come è duro calle lo scendere e 'l salir per l'altrui scale." Vi posso garantire che io lo so, eccome. Tantomeno hanno idea di come si possa sopravvivere. O si debba. Criticare è molto più comodo. Anche criticare chi non critica.
Ma io rivoglio quell’aria pungente, rivoglio quelle foglie, quelle palme e quei ricci e vorrei che tutti riuscissero ad adattarsi agli ippocastani - e a far adattare i propri figli - come ha fatto la generazione dei miei genitori: con decoro, in silenzio e senza imporre che venissero piantate palme e pitosfori laddove difficilmente avrebbero resistito.