Eccomi qui, puntuale come il venditore di rose.
Non ho resistito. Ho guardato il festival, lo ammetto. E l’ho anche guardato prevenuto, perché il duo Fazio-Litty oramai è talmente prevedibile che ero certo di anticipare le battute di entrambi: lei ancora ferma alla fase del cacca/culo/pipì/pisello/maroni/polverina dei piedi, lui perennemente nei panni del finto imbarazzato moderatore. Ho anche commentato su facebook e ciò, assieme alla storia del Papa, mi è costato ben nove amicizie cancellate con altrettanti "fascista!".
Comunque così è stato: uno spettacolo che emanava un odorino di stantio, una serie di siparietti, di battute scontate e pseudolepide, di quelle che fanno proprio tanto ridere.
Partiamo con la cronaca.
Fazio, non sapendo proprio come iniziare, esordisce con un monologo sull’aria chiusa nei barattoli vuoti, ossia sul fatto che Sanremo è una trasmissione “popolare” e bla bla bla, poi dà il via alle danze tra il nonmenefreghismo più completo circa quell'introduzione che serpeggiava tra il pubblico, che già stava pentendosi per non avere speso i soldi del biglietto altrove.
Di colpo appare il coro dell’Arena di Verona che senza troppi preamboli inizia a intonare il “Va’ pensiero”. Ora, cosa c’entri quel pezzo con la serata non lo capisce nessuno, nemmeno i coristi, che hanno una faccia da funerale che farebbe appassire anche i fiori che, tradizionalmente, ornano quel palco. Ma di fiori non ce ne sono, ché è una cosa troppo borghese. Ma va ben, dai, dura poco, liberano veloci il palco.
È il turno della seconda star della serata, la Litty, che, forse per la paura di non avere abbastanza visibilità dicendo solo cacca e pipì, arriva a bordo di una carrozza. Dopo avere transitato per le vie “in” della città, il catafalco si ferma di fronte all’Ariston, lei scende e, starnazzando più del solito, entra in teatro, passa tra il pubblico, fa qualche battutina scontata sul MPS (anzi in pochi minuti ne fa circa una decina, tutte politiche di una tristezza che anche i cavalli della carrozza hanno fatto il doppio della cacca), per poi prendere posto sul palco. Entra con quel finto veloce zoppicare che dovrebbe rappresentare fretta e disagio (per i tacchi presumo, ché lei crede invece di essere simpaticissima), ma che poi sul palco supera benissimo. Un'entrata più di plastica non poteva essere ideata. Appena arriva legge, con la solita vocina stridula che oramai non fa più nemmeno ridere le iene ridens, una letterina insipida rivolta a quello che per lei è un Santo inesistente, San Remo, in cui lo prega di non farle fare brutte figure. Ma il Santo, che ha sento benissimo, se ne frega e non ascolta la preghiera ("tanto sono inesistente", ha detto, "cosa mi preghi a fare?"), cosicché le fa collezionare più magre figure che le figurine dell'album dei calciatori.
Poi conclude lasciandosi andare a una delle parole che più ama, evidentemente non è ancora uscita da quella fase: "culo". Sotto lo sguardo fintamente imbarazzato di Fazio.
Finalmente arrivano le canzoni, quest’anno ogni artista ne può interpretare due, poi da casa ognuno vota quella che più gli piace. Bei tempi quella della giuria popolare.
Il primo cantante è Mengoni. Interpreta due pezzi che, se non fosse per la sua magistrale espressività, passerebbero nella noia più completa.
Nel primo si rivolge a qualcuno promettendogli alcuni degli spazi che lui sta costruendo mentre il mondo cade a pezzi. Nel secondo parla di una persona che lui sta cercando ma che non trova (pare che stia scappando dopo avergli dato fuoco).
Poi è ovvio che non può andare via senza la battutina alla Litty sulle rime che si possono fare con Mengoni. Sorvoliamo.
Tra un cantante e il successivo viene chiamato sul palco un esponente dell’arte, dello sport o di altro. Ecco, di loro non mi occupo, giacché sono state presenze oltremodo inutili, tipo le sorelle Parodi.
Poi c'è Gualazzi, quello che qualche anno fa vinse stonando a più non posso mentre tutti lo applaudivano commossi. E anche qui stona, bela, e poi via!, a prepararsi per il prossimo festival, ché lui esce solo in quell’occasione.
Nella prima canzone si rammarica di non essere riuscito a fermare “l’accidia immemore che porta il tempo”, “di non avere fermato la guerra”, “di non essere riuscito avrei asciugato le nubi in lacrime”, “di non essere riuscito a sfondare le porte ipocrite del paradiso”, eccetera eccetera. Cosa voglia dire non lo so, però poi aggiunge che per vivere basta un sogno, e lo dice ben tre volte (se avesse avuto un po’ più di tempo avrebbe anche aggiunto che la gente è invidiosa).
Nella seconda ha messo insieme una serie di frasi il cui senso, anche genrale, sfuggirebbe anche al più bravo degli psichiatri o a un esperto monaco zen.
Sarebbe opportuno, anziché votarlo, mandargli un sms avvisandolo che gli stanno rubando la macchina, per farlo allontanare dal palco.
È l’ora di Daniele Slvestri, giusto un attimo prima che cadesse nel dimenticatoio.
Il primo pezzo ha il valore aggiunto della traduzione nella lingua dei segni per i non udenti, e ciò è buono, ma il testo e la melodia sono un vero strazio. Il solito inno alla ribellione e alla resistenza, al lavoro alla scuola e alla gente cattiva. Basta, per favore.
Il secondo pezzo è originalissimo: la storia di un amore finito, a cui uno dei due pensa sempre. E anche qui c’è il valore aggiunto: l’assoluta mancanza di capacità vocali. Un pezzo al limite del parlato che è semplicemente fastidioso.
Arrivano la Molinari & Cingotti, che interpretano due pezzi stile anni ’50, praticamente identici, anche nelle stonature di lei.
Pure loro originali più che mai: nel primo si parla di una lei pentita per avere lasciato il suo lui; nel secondo si celebra il fatto che la gente non finisci mai di conoscerla e non sai cosa vogliono.
Ma poi arriva l’ora del primo piatto forte (stasera ci sono ben due ciliegine sulla torta): Crozza.
Indovinate un po’ di cosa parla? Vi do un indizio: si presenta come “Silvio B.”
Sì, avete indovinato, anche se non era facile. Ci stupisce con un monologo da Nobel per l’originalità creativa: ripete sempre le solite, trite, ritrite, sulla disonestà della politica. Poi, giusto per tentare di convincere il pubblico che lui non ha un’unica ossessione, si lancia in un patetico e stucchevole monologo sulla disonestà diffusa degli italiani. Ecco, i soldi che quegli italiani da lui insultati però vanno bene per il suo cachet. Tocca un po' Bersani, un po' Ingroia (di cui fa un'imitazione che evidentemente non rivede, perché altrimenti la cancellerebbe dal suo repertorio, peraltro già abbastanza scarni).
Sì, a dire il vero è partito male perché al suo arrivo – è entrato in scena con la patetica, tristissima, obsoleta, unta e bisunta imitazione della voce di Berlusconi – il pubblico, e giustamente, si è ribellato fischiandolo. Ma poi tutto è tornato normale e tutta la platea rideva e applaudiva a comando. I soliti Berlusconiani, pfui a loro.
Una performance proprio in linea con il festival della canzone italiana. Un po’ come parlare di malattie e di acciacchi, di analisi e di ticket, durante la discussione di una tesi di laurea in fisica nucleare.
Dopo di lui, giusto per non lasciare sbalzi di qualità che potrebbero disorientare il pubblico che sta sbadigliando a bocca larga facendo intravedere anche l'appendice, sono arivati i “Marta sui tubi”, un gruppetto vestito a pois che secondo me neppure le loro zie sapevano che cantassero.
Due pezzi che raggiungono l’olimpo della inascoltabilità. Del primo – e per fortuna – non si capiscono neppure le frasi, parlano velocissimi, si cantano addosso. Poi vado a vedere il testo su google e capisco che usano il generatore di frasi a casaccio; il secondo parte da una considerazione di una profondità che mi si stava quasi per fulminare il digitale terrestre: “Quando il cuore è convinto non sbagli mai, prova a chiedere al vento quello che vuoi”. Un pezzo in cui chiedono perdono a tutti, anche alla pastorizia e ai punti cardinali, tranne però ai malcapitati che li ascoltano. Non voglio andare oltre.
Viene poi chiamata sul palco una coppia gay che però può starci poco. Le teste pensanti evidentemente pensano che Crozza sia più interessante.
È il turno di Maria Nazionale, napoletana pura e famosissima in terra partenope. Si esibisce in due pezzi che il campanello della portineria di mia nonna (che abitava proprio a Sanremo, dove io sono oltretutto nato) aveva più fascino. Il primo è un inno alla poesia, alle stelle, alla luna che si specchia nel mare, che non possono essere confusi col mondo che dice bugie. Solo lei dice la verità. Un pezzo che gronda di filosofia.
Il secondo è in napoletano stretto, e anche qui davvero c’è uno sfavillìo di innovazione: lui che vuole lei e lei lo vorrebbe ma non lo vuole.
Per favore, sequestrate agli autori la carta carbone, le fotocopiatrici e inibite la funzione copia/incolla dei loro pc.
Prima ho detto che le ciliegine sulla torta sono due. Una è Crozza, ma l’altra… tenetevi forte eh.
Toto Cutugno, che canta assieme al coro dell’Armata Rossa!
Ma non la trovate una cosa fantastica? Che ne so, un accostamento tipo una bomboniera a forma di putto alato in capodimonte, con un orologio a cucù in una mano, un mazzo di fiori con delle lampadine a intermittenza nell'altra, su un carretto siciliano, con un carillon dentro, fuxia e un’enorme tulipano in cristallo di Boemia sulla testa?
Ma non è finita, a un certo punto Cutugno dice che un giorno lo chiamò al telefono Domenico Modugno in persona (si presentò come “Mimmo” e lui lì per lì non capiva chi fosse) per informalo che lui - Toto Cutugno! - sarebbe stato il suo "prosecutore". A tale affermazione anche i componenti del coro, seppure non capiscono un’acca di italiano, mettono in moto gli stivali, pronti a sferrargli una bella suonata di casacciof sul posteriore, ma Fazio li calma. Lui è bravissimo a calmare la Litty (ah sì, c’era anche lei, che ogni tanto bela), il pubblico, eccetera.
Lo allontanano dal palco prima che le balle pazzesche che sta sparando colpiscano qualche lampadario, ci mancherebbe solo l’ambulanza all’Ariston.
Poi si è fatta ‘na certa e bisogna mettere le sedie sui tavoli e lavare per terra, così chiamano Chiara e le fanno prima cantare due canzoni. Prima domanda, ma a Chiara è morto il gatto? No, perché è sempre tristissima. Oh, vabbe’ non è che ci sia molto da stare allegri eh.
Anche lei, per non sfigurare, parla prima un po’ dell’amore e delle emozioni che si hanno quando lo si incontra, senza tralasciare il mare. Poi nel secondo pezzo, per mettersi in pari, cita il vento e parla dello smarrimento della gente, che come ben si sa non sa più quello che vuole.
Alla fine, mentre oramai il pubblico si sta mettendo i cappotti felice di uscire al freddo pungente che imperversa su Sanremo, arriva un giocatore di pallanuoto, altissimo, e siccome la Litty non riesce a moderare per troppo tempo le sue pulsioni, gli chiede se per caso lui fa la pipì nell'acqua della piscina quando gioca.
Va be’ ognuno dà e fa quel che può. E lei per soli 3centomila euro dà il massimo.
A duman.