Dopo che gli ho esposto ciò che pensavo, Ivano Mingotti mi ha chiesto un altro parere, questa volta sul suo romanzo Celeste 1872 [Alter Ego Edizioni, 162 pagine]. Mi sono allora imposto di leggerlo fino in fondo.
Si tratta di un’opera ispirata alla storia (vera) del mercantile Mary Celeste, salpato dagli Stati Uniti alla volta di Genova con un carico di alcool, ritrovato nel dicembre del 1872 completamente vuoto alla deriva al largo delle Azzorre e definito la prima nave fantasma della storia.
La voce narrante è quella di Sarah Briggs, moglie del proprietario dell’imbarcazione che, salpata con il marito e l’equipaggio, durante la navigazione, prima di scomparire misteriosamente assieme agli altri, si rivolge a Dio in una sorta di monologo/preghiera.
Anche qui non posso fare a meno di rilevare le fastidiose ripetizioni, anche se in misura minore, che affliggono l’opera. L’autore, per tutte le 153 pagine effettive del libro, fa dolere la donna fondamentalmente di due cose: di quanto sia rozzo e volgare l’equipaggio e di non poter far nulla in ordine ad alcuni soprusi perpetrati dal Capitano (grande amico di suo marito) nei confronti dei membri dell’equipaggio medesimo.
Ora, partendo dal presupposto che (anche senza condurre ricerche storiche particolarmente accurate) nel 1872 sui mercantili non è che si trovassero equipaggi composti da fini letterati soliti trascorrere il tempo libero – anziché a ubriacarsi e schiamazzare, come succede in queste pagine – declamando versi classici, non si capisce per quale motivo Sarah, una volta salita a bordo, si sia trasformata in una sorta di novella inorridita Alice del paese delle meraviglie. Oltretutto lei è la moglie del proprietario della nave, quindi si presume conoscesse abbastanza bene l’ambiente marinaresco.
Quanto al dolersi per i soprusi, di cui è stata diretta testimone, l’argomento poteva esaurirsi in dieci pagine, a dir tanto, visto che al lettore non viene spiegato granché di tali fatti.
In poche parole, questo libro poteva contemplare al massimo venti pagine.
La quarta di copertina sembrava promettere qualcosina di più, magari una soluzione suggestiva, invece tutto è incentrato sul lungo, estenuante, disorganico e ripetitivo discorso che Sarah rivolge al Signore; discorso – a dir poco barocco – durante il quale, oltretutto, spesso non si capisce neppure dove si trovi la protagonista: un momento è sul ponte, un attimo dopo invece è a tavola, poi è davanti a un calamaio, poi è con la figlia, poi si sta rigirando inquieta tra le coperte. È impossibile quindi capire da quale postazione stia meditando.
Ma sì, dai, dettagli.
In queste doglianze sono innestati altri due elementi, per così dire collaterali: la presenza a bordo della figlioletta di Sarah (che nella realtà aveva due anni, ma qui non si capisce che età abbia, e comunque questo non è l’unico elemento di diversità rispetto alla storia originale) e l’odio che la donna inizia a nutrire per il marito. Per ciò che riguarda la bimba, è chiaro che l’autore spesso non rileggeva ciò che scriveva, visto che a volte è calva e a volte ha i capelli, ma sono dettagliucci anche questi; quello che più stupisce però – oltre alla sua presenza a bordo, di cui ancora oggi non si comprende la ragione – è l’astio che la donna inizia a nutrire contro il marito. In poche parole, l’autore fa inviperire la pia Sarah perché il consorte, durante una notte di tempesta, anziché stare con lei sottocoperta a consolarla, è rimasto a lottare con i suoi uomini al fine di non far affondare l’imbarcazione. Ma tu guarda che uomo insensibile!
Ecco cosa si legge al proposito a pagina 46: «Ma cosa c’è di meglio che stare con la propria famiglia, con la propria moglie, con la propria discendenza e proteggerla, tenerla in salvo, stringerla? Valgo meno di ogni singola corda di questa nave, Signore? Meno di ogni documento?».
Be’ certo. Insomma, fatto sta che da quella notte lei inizia a odiarlo profondamente, tanto da non guardarlo nemmeno più in faccia. Vai a capire il perché.
La preghiera è intrisa da talmente tanti luoghi comuni, di assurdità e di banalità che a esaminarla compiutamente si rischierebbe di essere ancor più noiosi. Non si dica che tutto ciò è voluto, né che è connaturato alla storia, né si tenti di gabellarlo per dubbi esistenziali legittimi, sia per epoca, sia per ambientazione, perché sarebbe un’eresia. Non appare neppure percorribile l’ipotesi che la nave e il mare siano paragonabili a un teatro, magari a mo’ di prigione, dove si svolge un dramma interiore, ne mancherebbero gli elementi costitutivi.
Infine, non posso esimermi dal rilevare come le numerose d eufoniche lanciate a caso nel testo – la maggior parte delle quali piovute nella congiunzione “ed io”, usata e abusata ovunque, anche a inizio frase – abbiano avuto nei miei confronti l’effetto della sabbia negli occhi.
Dettagli anche questi.
Quindi, alla fine di tutto, resta un interrogativo: perché questo libro?