È che una sera mi trovavo a Roma, coinvolto in un concorso letterario surreale: “Il racconto più brutto”. Un concorso geniale, qui tutte le informazioni, che, come dice l’organizzatrice Carolina Cutolo, è "Il primo concorso letterario che premia il mediocre sublime". Intervisterò, prima o poi, anche Carolina, nel frattempo potete fare due cose: scaricare qui gratuitamente l’antologia che contiene i pezzi della serata e leggere, di seguito, ciò che ho da dirvi su Fabio Viola. Anzi ciò che ci dice lui. Sì, perché quella sera ho avuto modo di conoscerlo e poi di leggerlo in rete. Appartiene a quella categoria di persone che a me piacciono (è brutto come termine, forse, "categorie", ma è molto efficace) perché amano le lettere visceralmente e le trattano con leggerezza Calviniana e ciò non è cosa da poco (e per ciò io lo invidio cordialmente). Credo che la letteratura moderna abbia bisogno di autori come lui, che peraltro ha pubblicato opere di rilievo con altrettante Case Editrici di prestigio.
Gli ho chiesto un’intervista per Tiscali e lui, forse un po’ stupito, me l’ha concessa. Eccolo.
Ciao Fabio, grazie per la disponibilità. Per rompere un po’ il ghiaccio, ti andrebbe di dirci qualcosa di te, tipo nascita, residenza, scuole e/o altri gossip personali?
Grazie a voi. Sono nato a Roma nel 1975, ho vissuto in Giappone (a Osaka) per quattro anni, da un paio d'anni sono tornato in Italia. Sono laureato in Lingue e letterature straniere. Tuttavia non asiatiche ma scandinave.
Ti dedichi con passione alla scrittura e alla traduzione, intese nel senso più ampio del termine, che comprende anche il reportage. Ti senti più scrittore o traduttore o meglio, qual è, se c’è, l’attività che senti più “tua”?
Ho iniziato a tradurre solo a marzo dell'anno scorso – ho avuto il privilegio di esordire traducendo il nuovo romanzo di Edmund White per l'editore Playground, per il quale di recente ho completato anche la traduzione del nuovo libro di Helen Humphreys. La scrittura mi tiene occupato da più tempo, ma il percorso è talmente diradato che non riesco a tracciarlo. Non scrivo tutti i giorni perché lo trovo troppo faticoso, tento di supplire origliando le conversazioni per strada e osservando le persone interagire nei negozi, sull'autobus, alle Poste, insomma quando sono più vulnerabili. Me compreso.
Hai prodotto una serie di opere di tutto rispetto e pubblicate da case editrici di grande prestigio. La prima domanda che vorrei farti è: hai trovato difficoltà nel farti pubblicare; la seconda: c’è un’opera cui, senza togliere nulla alle altre, tieni particolarmente?
È avvenuto tutto in modo molto graduale, in realtà. Non ho avuto particolari difficoltà perché non ho mai avuto fretta. Sono convinto che lo scrittore sia, a ragione, il proprio peggior nemico. Suo dovere non è solo auto-censurarsi senza sosta, ma anche vagliare e stroncare continuamente la propria prospettiva sulle cose, fare un continuo upgrade dei propri pensieri e parole, a costo di non scrivere né dire nulla.
Un'opera a cui sono particolarmente legato c'è ed è il racconto incluso nell'antologia Voi siete qui (Minimum fax). Una versione fantapolitica e grottesca dell'omicidio di Gianni Versace.
Come vedi, nel panorama sociopolitico di oggi, lo stato, il ruolo, la funzione e le prospettive della letteratura?
La letteratura prescinde da qualunque scenario sociopolitico o Stato. Non ha ruoli né funzioni in senso stretto, e tuttavia è propedeutica, serve a preparare al peggio perché mette a fuoco la condizione umana in tutto il suo caos. È un rendering quadrimensionale della vita; ed è anche una lingua a sé, chi la conosce ha accesso a visioni tanto sfuggenti quanto evidenti, che più sono a fuoco più fanno male.
Per inciso, non capisco chi, pur potendo, non legge. Mi sembra uno spreco di tempo non farlo.
Hai uno scrittore o un autore, o un artista in generale, cui ti ispiri particolarmente o che ami?
Cito sempre gli stessi: Witold Gombrowicz, Abe Kobo, Nathanael West, Bret Easton Ellis. E fuori dalla letteratura David Lynch. Un polacco, un giapponese e tre americani, che hanno in comune l'attrazione morbosa (e quindi sincera) verso lo sfaldamento della “realtà”, le caricature, la non linearità delle azioni, ciò che le parole faticano a circoscrivere.
In rete, e per la precisione qui, sta spopolando la tua (peraltro raffinatissima ed esilarante) saga a puntate intitolata “I dirimpettai”. So che appartengono a una casta assolutamente inarrivabile, sia materialmente, sia fisicamente, sia concettualmente, ma cosa ci puoi dire a tal proposito e a tua discolpa?
"Deep Balduina" è nato per gioco, anche perché è abbastanza diverso da ciò che scrivo di solito. Su suggestione di un amico ho cominciato a spiare i miei dirimpettai appena mi sono trasferito nell'appartamento dove vivo tuttora, un attico minuscolo con un terrazzo molto grande in una zona di Roma chiamata Belsito. Piano piano ho cominciato a vedere quelle persone evolversi in personaggi sotto ai miei occhi. La cosa ha preso corpo e ora sta diventando la prima soap opera virtuale nata dal voyeurismo – peraltro indotto, nemmeno spontaneo. Non so chi siano davvero i miei dirimpettai, se li incontrassi per strada non li riconoscerei. Di “vero” c'è solo che hanno una casa molto più grande e bella della mia, e che tra i due c'è un certo divario d'età. Dubito che siano crudeli come i personaggi che ho immaginato io.
Abbiamo saputo che a fine marzo 2013 uscirà per Marsilio il tuo secondo romanzo, di ambientazione giapponese. Ti va di parlarne e di confidarci anche cosa significa per te il “Giappone”, dove peraltro hai anche abitato per diversi anni?
Non sono in grado di parlare in generale del Giappone, allo stesso modo in cui si fatica sempre a circoscrivere certi aspetti del proprio carattere. L'unica prospettiva che riesco ad adottare è quella della famigliarità più profonda. Nei quattro anni passati a Osaka ho capito cosa significhi sentirsi “a casa”, e tuttora quando ci torno è così. Tuttavia Sparire, il nuovo romanzo, non affronta il Giappone come tema ma come luogo fisico verso il quale il protagonista non nutre alcun sentimento, che poi è la sua disposizione emotiva nei confronti della vita. Ennio va in Giappone alla ricerca della sua ex ragazza scomparsa e fa la conoscenza del proprio vuoto, ne è risucchiato, e se ne accorge solo quando è troppo tardi ed è già “sparito” anche lui. Perché se c'è una cosa che il Giappone sa fare bene è risucchiare – anche fuor di metafora, visto il rumore che fanno quando mangiano il ramen.
Ho letto troppi racconti di occidentali sul Giappone, anche illustri, che mi hanno lasciato con la sgradevole sensazione di aver assorbito un'accozzaglia di esotismo e originalità a tutti i costi, come se, confrontandosi con il Paese “altro” per eccellenza, non si riuscisse a non essere schiavi dell'idea stessa di alterità, riducendola tra l'altro un imponente portato culturale a questioni puramente esteriori.
Quindi anziché rifarmi alla letteratura orientalista ho provato a filtrare la mia esperienza attraverso la poetica di grandi autori giapponesi: l'alienazione di Abe Kobo e l'evasione verso “l'altro lato” di Kawabata Yasunari, il cosiddetto mukougawa; ma anche le teorie sulla postmodernità giapponese di Azuma Hiroki e gli scritti sull'occidentalismo di Miyake Toshio. Il risultato è un romanzo sugli sfaldamenti: della volontà, della “realtà”, dell'identità; il tutto sul perturbante adagio lynchiano secondo cui un mistero, per essere davvero tale, non può avere una soluzione.