Tre amici partono per Londra due giorni prima della prova orale dell’esame di maturità. Una volta arrivati, iniziano a visitare i posti più famosi di quella capitale e a cercare ragazze. Una cosa innovativissima insomma, una storia mai scritta, oltretutto raccontata nella maniera più piatta possibile, con una narrazione che stagna senza rimedio anche quando si verificano due fatti che per chiunque – anche per tre ragazzi così in preda allo spleen come i protagonisti – sarebbero motivo quantomeno di una bella scossa. Infatti uno dei tre viene minacciato con una pistola dal padre di una ragazza che ha conosciuto, mentre un altro di quel terzetto, vai a capire il perché, si autoaccusa di un omicidio e va a costituirsi, ma queste due circostanze vengono gestite a livello espositivo come se si trattasse di un raffreddore. Nessuna emozione, nessun turbamento, nulla di nulla, se non continue elucubrazioni su cose lontane, su "riti sociali" avulsi dalla storia e completamente inutili, seguite da un normalissimo e disinvolto rientro in Patria, come se niente fosse successo.
La lista della spesa o la ricetta della zuppa gallurese danno più emozioni.
L’autore cerca di colorare un po' gli eventi assegnando ai protagonisti dei nomignoli e delle storie “maledette” di una banalità da brivido; a volte li fa litigare, ma la sensazione di storia plastificata regna tranquilla su tutta la vicenda.
Basti pensare che una delle ragazze conosciute consegna a uno dei tre, dopo un incontro galante, “… un bigliettino piegato in quattro, in cui aveva trascritto alcune battute di Titanic.”.
Non mancano poi le constatazioni di gran valore, del tipo: “Liverpool la trovaste odorosa di pioggia e gioventù, ma, a detta del Bardo, diversa da Dublino.”
Ma dai, davvero sono due città diverse? Cavolo, che occhio 'sto Bardo.
Ecco, sì, i protagonisti vengono citati con dei nomignoli: Bardo e Schopenauer. Il terzo non viene mai nominato perché è quello a cui, idealmente, si rivolge la voce narrante e anche questo espediente narrativo crea non pochi problemi di scorrimento.
Ma che tipo di amicizia lega i tre “eroi generazionali”? L’autore ce lo sintetizza in poche righe:
“A un certo punto, il Bardo cercò di convincere Schopenhauer che il Papa era il primo fan dei Beatles, e non per niente aveva scelto il nome Giovanni Paolo, ché se fosse stato per lui avrebbe aggiunto anche Giorgio Ringo, ma i porporati s’erano opposti e così s’era tenuto solo i nomi più rappresentativi. Schopenhauer lo guardava con l’espressione di chi sente il solito racconto di ufo.
(Questa, in effetti, era l’essenza della vostra amicizia.)”
Capito? Ecco qual è l’essenza che li lega.
L’intesa dei tre poi è fantastica, lo si capisce da ciò che succede una sera in cui vanno in una pizzeria (a Londra, così, per una cena “nostalgica” come la definiscono loro):
“La cameriera pseudovietnamita ti sorrise con un ghigno fanciullo, ma tu rimanesti impassibile. Mescesti l’acqua con divina maestria, e notando le dimensioni dei bicchieri conveniste che voi, certi tuberi femminili, li preferivate sì abbondanti, altro che coppe di champagne.”
Ecco, quel “mescesti” è la cosa migliore direi e con questo credo che sia inutile ogni considerazione in ordine alla ricerca del linguaggio.
Se poi volessimo approfondire meglio da un punto di vista narratologico l’opera, potremmo dire che uno dei tre, ad esempio, si preoccupa perché gli scoiattoli di un parco fanno troppa cacca, oppure potremmo cercare di capire come abbia fatto, in una Londra caotica, uno dei tre protagonisti, in pochissimo tempo, a capire in quale ospedale fosse finita una sua amica che aveva tentato – anche qui, vai a capire il perché – il suicidio.
Non manca l’inevitabile – quanto virile, ché qui c’è una sorta di virilità tutta alla Fabio Volo – partitella di pallone improvvisata e raccontata nella maniera più monotona della letteratura galattica. Ho fatto cenno a Fabio Volo perché è a lui che viene da pensare quando il Bardo racconta a Schopenauer una cosa fondamentale:
“Pensa allora cosa dovrebbe dire Alfredo… Da quando va all’università divide l’appartamento con altri tre ragazzi. Uno di questi fa volontariato, e pulisce il culo ai vecchi, così non la sente più, la puzza, si è come dire abituato, e quando il nostro amico Alfredo va in bagno, lui entra tranquillamente…”
“No…” si stupì Schopenhauer.
“Già, entra e quasi quasi annusa. Te la immagini la scena? Alfredo seduto sul cesso coi pantaloni giù e tutto il resto, e quell’altro maiale che sta lì a parlargli di quel che mangeranno a cena, oppure dell’esame di estetica…”
“Non sarà mica omo?”
“No, ma scherzi? Parlano anche di donne, là dentro.”
Questo raffinatissimo dialogo è nato siccome Schopenauer non è voluto andare in una casa famiglia che accoglie studenti perché aveva paura di sentire odoracci nel bagno. Anche questa è una bella dimostrazione di amicizia verso i due compagni, nevvero?
E sul rapporto Fabio Volo / gente che fa la cacca ci sono state ampie dissertazioni critiche.
Tutto è ammantato di stereotipi visti e rivisti, di totem triti e ritriti: le ragazze che incontrano sono una bella, una brutta e una così così; i tre protagonisti sono uno perfettino, uno più disinvolto e uno così così e via dicendo.
Una storia che poteva avere un senso se i personaggi, i dialoghi e le descrizioni fossero stati meno banali. No, perché è davvero poco credibile credere che quei due abbandonino il loro amico in galera a Londra, dopo avere architettato una fuga così “coraggiosa” poco prima dell’esame più importante della vita di ogni studente, così come è impossibile credere che le disavventure patite non li abbia smossi di un millimetro.
Sorvolo sul finale, ve lo risparmio. Vi dico solo che dell’amico in galera, quello che si è autoaccusato di un delitto – punto questo che poteva avere una valenza topica – non importa nulla a nessuno, tantomeno all’autore, che ha trattato la questione nella maniera meno incisiva del mondo sotto ogni punto di vista, anche quando ha dovuto – nella vana speranza di rianimare un po’ la storia – far succedere un’ulteriore disgrazia a quel poveretto.
E dire che quando questo romanzo uscì:
Dario Voltolini su “TorinoSette - La Stampa” ha scritto che è “un’interessante ibridazione fra gerghi, stilemi e ritmi del parlato medio adolescenziale studentesco”;
Mario Fortunato su “L’espresso” ha parlato di “scapricciata disinvoltura”.
Giancarlo Susanna su “RaiLibro” ha scritto: “Un romanzo di formazione nel senso più classico della definizione, ma scritto e controllato con una padronanza che ci sembra già ora molto più di una promessa”.
Enzo Verrengia su “Stilos” l’ha definito “il libro deliziosamente imperdibile con cui Malabaila sconfigge per sempre la mitologia negativa di una gioventù cannibale e afasica”.
Ecco.