Ci viene propinata anche l’analisi (chiamiamola così) di Libera i miei nemici (Mondadori 2005) un’opera di Rocco Carbone. Secondo Dell’Anna è un romanzo attraversato da una pietas che non fa sconti, un moto di condivisione del dolore che investe parenti, amanti e sconosciuti e lascia trapelare l’idea che si è tutti colpevoli, chi più chi meno, di macchiare di errori e omissioni la propria fedina esistenziale.
Che belle parole, vero? Cosa vogliono dire? Eh, adesso non siate curiosi. Ora sì che ci è chiaro il mondo carcerario e ci sentiamo tutti più intelligenti. Come? Sembra la sagra dell’occhiometro? Ma no, tutt’al più quella del circa meno quasi nel giorno in cui si celebra la vanvera.
Ma lo scrittore che ha innalzato di alcune tacche la qualità letteraria del racconto carcerario è senza dubbio Edoardo Albinati, secondo il nostro valente critico, che in Maggio selvaggio (Mondadori 1999) sceglie di mescolare al racconto del carcere frammenti di privato.
Ma no, ma dai! Davvero? La detenzione è un’esperienza estrema?? Credevo fosse tipo una vacanza in qualche villaggio turistico. Queste sono rivelazioni che colmano vuoti ontologici. Grazie, signor critico, che ci svela certe cose!
Poi è il turno dell’opera di Goliarda Sapienza, attrice e scrittrice romana morta nel 1996, L’università di Rebibbia (Rizzoli 1983, 2006; Einaudi 2012), che è finita dentro a seguito di un furto di gioielli. In quest’opera, per farci capire la realtà carceraria, l’autrice, che ha tanto colpito Dell’Anna, prima ci fa una vivace galleria di ritratti: l’”angelica” Marcella, la “mammina” Annunciazione, la “maestra di galera” Edda e tante altre.
Una cosa fondamentale, senza di questa il carcere non può essere capito. Nemmeno entrandoci.
Poi, contentissima di essere in galera, Sapienza cammina pericolosamente sul cornicione dell’idealizzazione della galera e dei suoi ospiti; ma il racconto è salvato da questa nota incongrua, dall’euforia della scoperta di un mondo comunque altro, che la allontana dai toni cupi di molti racconti carcerari.
Mah…
Poi tocca a Il giardino delle arance amare, un racconto lungo di Sandro Bonvissuto, compreso nella raccolta d’esordio Dentro (Einaudi 2012) in cui l’attento e preparatissimo critico, ha trovato una illuminazione folgorante: Perché, come il peso di un oggetto traslocato sulla Luna, al cambio di contesto corrisponde un cambio di peso semantico delle cose.
Vabbe’, ciao.
Dell’Anna (e sono sicuro che tutti questi libri li ha letti, certo), conclude le sue preziosissime analisi affermando: Ce n’è abbastanza per saperne di più sulla Rebibbia reale e passeggiare nell’altro carcere: il suo doppio romanzesco, ma non certo meno vero.
Ed ecco qui, ora di carcere ora ne sapete tantissimo, visto che bello? E che belle parole? Ora siete pronti per quello immaginario. Avete notato che sono stati nominati solo libri di grandi editori (e che tutti i link puntano ad Amazon)? Cosa credevate, che ad esempio si andasse a citare (anzi a “rovistare”) che ne so, ristretti.org o qualche altra associazione? Ma per favore, a parte che poi per citare certe fonti bisogna conoscerle, ma quelle sono per i poveri, mentre gli intellettuali, quelli in possesso di notevoli strumenti, si dedicano solo ai grandi, mica cotica.
Ma la frase che più colpisce di questo pezzo da Pulitzer, il clou, la ciliegina sulla torta, è quella finale, la riporto senza commentarla, tanto i detenuti e la funzione educativa della pena (chissà se il dottor Dell’Anna ne avrà mai sentito parlare) a che servono? L’importante è la centralità barocca e affabulatoria dei narratori culturalmente specializzati, leggete e incorniciatevi questa illuminazione senza precedenti, questo condensato di rispetto e di sensibilità:
Per questo è forte il dubbio che se i frequentatori di palazzo Madama e Montecitorio avessero sfogliato un paio di questi libri, magari avrebbero messo mano per tempo ai problemi degli istituti di pena e a quest’ora, chissà, la cintola di Pannella avrebbe un paio di buchi in meno.