Ce ne parla Luca Favaro, un infermiere appassionato di musica che vive nel Trevigiano, nel suo Il tempo senza ore [Nulla Die, dicembre 2015, 227 pagine], ambientato nella sua zona di residenza; ci racconta la – meravigliosa, tutto sommato – parabola di Marco Galeotto, un musicista affermato che, ironia della sorte, aumenta la sua fama e il suo prestigio proprio con l’insorgere della terribile malattia neurodegenerativa, salvo poi crollare definitivamente, in una sorta di struggente Morte del cigno. Una storia che ricorda, per certi aspetti, i risultati di uno studio secondo i quali Maurice Ravel compose il suo famoso Bolero in preda ai prodromi di una misteriosa demenza, probabilmente proprio il morbo di Alzheimer, all’epoca praticamente sconosciuto. La stessa magia che ammanta il famoso capolavoro Raveliano riecheggia nelle ultime esecuzioni che Galeotto dirige – e in ogni suo approccio con la musica – poco prima di perdere completamente ogni contatto con la realtà, mangiato dal terribile morbo che lo ha consumato lentamente e con ogni crudeltà.
Un amore totale e totalizzante per la musica, quello del protagonista, che, però, è andato a discapito della sua vita privata e, in particolare, di quella sentimentale, ma, anche in questo caso, l’ironia – o la crudeltà? – della sorte, fa sì che la malattia gli conceda, oltre all'escalation in campo artistico, di rivivere un amore interrotto molti anni prima senza un apparente motivo. Infatti, spinto da chissà quale istinto, scrive una lettera a Margot, una sua ex fiamma peraltro mai dimenticata, per chiederle di tornare assieme e lei, che aveva praticamente vissuto sempre nel ricordo di quell’amore interrotto, lo raggiunge per vivere l’ultima drammatica fase, discendente quasi a picco, della sua vita.
La storia si dipana in un crescendo ciclico che ricorda, ancora, il Bolero di Ravel e impone al lettore una serie di interrogativi già in partenza senza risposta in un crescendo che sembra voler allineare l’estetica della vita alla natura.
Una storia di ordinaria solitudine e di ordinaria burocrazia, che lascia l’amaro in bocca e che fornisce più di uno spunto di riflessione, fino ad arrivare, paradossalmente a una conclusione: è solo banalità della sofferenza e della dissolvenza di un io narrante sempre più rarefatto dalla mera corruttibilità della carne.
Una scrittura agevole e senza sbavature per un ottimo risultato.