Questo racconto l'ho scritto per arts magic word contest
Devo per forza raccontarvelo. Quand’ero piccolo la mia famiglia era composta così: io, la mamma, papà e il mio mangiadischi. Me lo aveva regalato la mia nonna paterna, era violaceo, con le superfici tutte zigrinate, aveva una rotella nerissima dentellata per il volume e un tasto nerissimo per estrarre il disco quando non ti andava più di ascoltarlo (se ti andava di ascoltarlo tutto fino in fondo, invece, il disco alla fine usciva automaticamente). Era magico, il suo funzionamento per me era un mistero. Scrutavo dentro la fessura attraverso la quale inserivo il disco al fine di carpirne qualche segreto, ma nulla; non riuscivo a vedere nulla d’interessante nemmeno guardando dalla parte opposta, attraverso la grata dell’altoparlante. La mia fantasia allora si scatenava in articolati voli su come potesse funzionare un mangiadischi, ossia quella scatola prodigiosa dalla quale, se si infilava un cerchio in plastica, usciva la musica. Una volta papà mi disse che lo doveva aprire per pulirlo. Non credetti alle mie orecchie. Il mangiadischi si poteva aprire? E io potevo vedere cosa c’era dentro?? Wow. Sì, ok, accettai di cederglielo per il tempo strettamente necessario alla manutenzione, purché io potessi assistere. Il tempo di un ultimo disco, anche se il tempo io non l’ho mai capito (sono quelle cose che esistono e basta). Non volevo ancora darglielo e me lo prese dalle mani. Lo aprì con una lentezza esasperante, ma quando riuscii a vederne l’interno rimasi deluso: tra quei meccanismi non c’era nulla che potesse farmene comprendere il funzionamento. Gli chiesi delucidazioni e lui mi spiegò che la puntina – “questa, la vedi?” – andava a infilarsi dentro i piccoli solchi del disco – “questi qui, li vedi?” – e che quel contatto, tramite fili e transistor vari, si trasformava poi in musica. Ecco, proprio lì stava il problema: come si verificava la trasformazione? Secondo me nemmeno lui lo sapeva, anche se a dire il vero mio padre solitamente sapeva tutto. E poi, i solchi mica li avevo visti. Anche il dottore credeva di sapere tutto, la mamma lo ascoltava sempre a bocca aperta. Finita la pulizia me lo restituì e mi pregò di usarlo a volume basso. Ma che significato ha sentire la musica a volume basso? Non arriva, non serve. Tuttavia la spiegazione di papà meritava almeno una verifica e decisi di fare un esperimento, di nascosto ovviamente: leccai per bene tutto il disco e lo infilai nel mangiadischi. Se fosse stato vero quello che aveva detto, la mia saliva avrebbe impedito il contatto della puntina con il disco e non si sarebbe sentito nulla. Invece la musica usciva lo stesso, quindi la spiegazione era da cercarsi altrove, ma questa è un’altra storia. Che poi un giorno la mamma trovò dei dischi leccati e si spaventò e mi fece vomitare stringendomi così forte il collo che mi si riempiva tutta la faccia di caldo. Ma non ero io che li mangiavo i dischi, il mangiadischi era lui. Poi mi picchiò e dopo mi portò a perdere (cioè che non mi faceva più trovare le cose al loro posto e ogni volta dovevo ripensarci). Ché i pensieri non riuscivo a fissarli o a fermarli, solo oggi ci riesco, ma solo un po’, con le regole. Poche, ma essenziali e indispensabili regole. Il tempo esiste e anche la musica, che mi fa stare bene. Ma soprattutto, come faceva il mangiadischi a riconoscere esattamente quale canzone doveva suonare? Se mettevo “Azzurro”, si sentiva “Azzurro”, se mettevo i “Dik Dik”, si sentivano i “Dik Dik”, eccetera. Io riconoscevo perfettamente le canzoni dalla busta in cartoncino in cui i vari vinili erano custoditi. E sapevo tutte le parole a memoria. E le so ancora. Ehi, sia ben chiaro, io adesso tutte queste cose le ho capite! E s’incantavano i dischi, avevano il motorino anche loro. Ripetevano la stessa parola, interrotta e ripetuta. L’unico modo per capire. Ma nessuno voleva che anche io lo facessi. La mia canzone preferita, anche se tutt’oggi non riesco a capire cos’avesse di tanto speciale, era “Azzurro”, di Adriano Celentano. La mettevo anche settemila volte al giorno, la sapevo a memoria e spesso i parenti spiritoseggiavano su tale mia passione. Solo la mamma quando mi sorprese a ballare su quelle note non approvò, ma lei non approvava niente. E ruppe il disco, ma la nonna me ne regalò un altro e mi disse che era lo stesso di prima, ma non lo volevo perché le cose rotte restano diverse dalle altre. Poi lo accettai. Non potevo resistere, dovevo ballare; la mia testa si offuscava ed esistevamo solo noi: la musica, io, il ballo e i miei arti, che si muovevano come le note, assieme. Si chiamano “arti” me lo disse il dottore, anzi gliel’ho sentito dire. “Arti”, come “artista” che ho sentito dire alla TV di uno che ballava e cantava contemporaneamente e che si chiamava Don Lurio, ma non era un prete. Non era un prete, non era un prete, non era un prete, non era un prete. E lo schiaffo di mamma: “smettila, scemo, vuoi andare all’inferno?” Figuratevi che una volta, lei, la mamma, a suo dire perché estenuata e al fine di bloccare un incipiente esaurimento nervoso, mi nascose il mangiadischi, con la scusa di averlo prestato un attimino a una sua amica che voleva sentire un po’ di musica. Resistetti mezza giornata, ma appena rientrato dall’asilo iniziai a reclamare ciò che era mio e me lo restituì. “Toh, tienilo, meglio la musica che i continui lamenti di un figlio malato del cazzo, paranoico.” Che poi cazzo non si dice e basta. Non si dice, no, no, no, no. Lo schiaffo. Che poi ci sono cose che succedono e non ci puoi fare nulla, che si susseguono come le perle della collana nel filo. Una dopo l’altra arrivano, succedono. Come le immagini o la musica. E gli schiaffi. Un altro aspetto interessante della questione erano i pezzi musicali veri e propri. Cioè: per quale motivo la gente doveva dire le cose cantando? Non bastava solo la musica? Tra tante mi aveva colpito in particolar modo “La bambola”, di Patty Pravo, che la mamma talvolta mi chiedeva di farle ascoltare, ma io spesso fingevo di non sentirla. Poteva benissimo comprarsi un disco tutto e solo per lei e sentirselo ogni volta che le pareva. Patty Pravo, non Patty Bravo, no, no. Pravo, non Bravo. Lei, la mamma, il suo disco non lo comprava perché non ci sono due cose uguali, lei voleva proprio il mio. E gli schiaffi sembravano uguali, o gli urli, ma non lo erano. E finivano subito, come le cose che succedono veloci, ma meno lunghe delle canzoni. Per fortuna. Il testo era particolarmente interessante: in poche parole si trattava del rimprovero mosso da una disperata e piangente signora a un ragazzo che insisteva nel farla girare vorticosamente, come se fosse una bambola. Io immaginavo che la facesse roteare afferrandola per la vita, perché il testo diceva: “da stasera la mia vita nelle mani di un ragazzo, no, non la metterò più”. La mia vita, la mia vita, la mia vita, la mia vita, la mia vita, la mia vita, la mia vita. Scivolava via. Le parole scivolano, la musica resta un po’ di più, ripeterla serve. Mi serve per riuscire a restare ancorato. E non potevo resistere, dovevo ballare. Sempre, non riuscivo a fermarmi. Ballavo quando io non vedevo mamma, e quando lei non vedeva me, perché altrimenti mi portava dal dottore. Oppure mi picchiava. Forte, come quella volta, forte. Quella del sangue. Però io dovevo ballare e ballavo anche mentre mi picchiava. Poi mi continuava a picchiare e mi ha fatto stancare, di colpo. Sempre lei, la mamma. “Se non mangi la frutta, lo sai, ti lego”. Ma lei non la lavava mai davanti a me la frutta e io non mi fidavo, forse sopra c’era la cacca degli uccellini, io l’avevo vista. Quella poveretta, quella del disco di Patty Pravo, sicuramente girava talmente veloce che il ragazzo non si accorgeva nemmeno che lei stava piangendo, perché lui pensava solo per lui. E lei spesso mi guardava e piangeva, si commoveva anche lei, la mamma, per quella povera ragazza. La “mia” mamma, dico, mi guardava e piangeva. Invece altri bambini mi guardavano e ridevano. Papà invece non c’era mai, però quando c’era era bravissimo. Liscio e non spigoloso e potevo ballare con lui e dire le cose che volevo, sempre. Papà rideva sempre e io voglio avere dei motivi per ridere. Mi fa bene alla pancia e dentro la testa. C’era un altro aspetto che aggiungeva ulteriore disperazione alla vicenda, a quella della signorina di Patty Pravo: a un certo punto la cantante diceva: “no ragazzo no, no ragazzo no, del ******* ore, non ridere”. Siccome proprio in quel punto il disco inspiegabilmente saltava, non riuscivo a capire di cosa non dovesse ridere quel ragazzo; cercavo di ascoltare con attenzione: una volta sembrava dicesse “del dottore”, un’altra “del mio odore”. Allora, del dottore è meglio non ridere, è permaloso, anzi più di una volta ha fatto piangere la mamma, però evidentemente quel ragazzo l’aveva fatta girare tanto velocemente che lei, in preda a un attacco di cinetosi, si era sentita male cosicché era venuto a visitarla il dottore. E il ragazzo, al chiaro scopo di minimizzare le proprie responsabilità, la buttava sul ridere fornendo una ricostruzione surrettizia dell’accaduto. E surrettizia è una parola bellissima, mai riuscirei a spiegarne il significato. La cinetosi mi era venuta una volta mentre ballavo e il dottore, serio, mi sgridò dagli occhiali. Forse diceva: “del mio odore”. E qui veramente la cosa diventava oltremodo drammatica. Mi veniva in mente un mio amichetto che una volta all’asilo si era fatto la pupù addosso (nel senso che si era lentamente e inesorabilmente cagato addosso). La suora – essendo quell’asilo gestito da suore – gli aveva chiesto come mai non fosse andato a farla in bagno e lui spiegò che gli era scappata perché “aveva paura”. Quella ragazza aveva paura, quella del disco. Io a volte ho paura, ma lo so che non devo. Anche quando la canzone diceva “poi mi butti giù” – giù dalla finestra, è chiaro – avevo un po’ di paura, perché quella della mia camera era troppo alta e se guardavo giù mi veniva il sudore alle mani. Spesso anch’io ho paura perché tutto si chiude e c’è il tunnel davanti a me, ma nessuno mi ci fa entrare. E mi fanno domande che mi scivolano fuori. È la musica che mi porta via le paure e le domande. E il ballo, io voglio sempre ballare, solo ballare. La scena era straziante: “non ci gioco più quando giochi tu, sai far male da piangere”. Beh certo se lui la strattonava così malamente, non era di certo un bel gioco. La mamma tutt’oggi non vuole che la gente si picchi, io non devo picchiare. No, no, no, no, no. Quando poi pensavo al fatto che quel ragazzo prima la faceva girar come fosse una bambola e poi la buttava giù, sempre come fosse una bambola, mi spaventavo veramente. Forse quella si era fatta la cacca addosso dalla paura e non si doveva ridere del suo odore. Ma non fa ridere in effetti. La cacca la fanno tutti, anche le persone più insospettabili. La finestra la voglio chiusa, chiusa, la finestra chiusa, chiusa. Nessuno ascoltava quel dramma nonostante venisse denunciato dappertutto: per radio, nei juke-box, alla tv. E anche io lo dicevo sempre, per ripeterlo. E la mamma non voleva. “Dittelo in testa, mi fai diventare scema. Come te”. Ma io non ci riuscivo. E ancora oggi ci sono tante cose inutili, ma se non ho più il mangiadischi forse muoio. Quando dormivo una volta il dottore è venuto dentro di me e me lo ha preso il mangiadischi e me lo ha buttato via. Poi quando ho aperto gli occhi me lo ha restituito. Ed era lì con me. Anzi molti lo canticchiavano visibilmente compiaciuti, quel dramma della signorina trattata male come la bambola, altri addirittura ballavano sulle parole della malcapitata, come ho potuto constatare di persona una sera alla Festa dell’Unità; quella sera oltretutto mia nonna, comunista storica e sfegatata, chiese all’orchestra di suonarle lo “spirù”, ma le venne risposto che quel brano purtroppo non era in scaletta, allora lei andò a lamentarsi con l’organizzazione, ma non sembrava per nulla toccata dal dramma della trottola vivente. Alla festa dell’Unità ho ballato con Lucrezia dietro il caseggiato del bar, poi è arrivata la mamma e mi ha detto che quando rientravamo a casa facevamo i conti. Cioè mi picchiava. Ma non era colpa mia, il ballo appariva sempre, anche se non lo volevo. E Lucrezia mi voleva bene e abbiamo ballato. E non rideva di me. E la mamma mi ha picchiato fino a che non si è addormentata perché, diceva, non dovevo allontanarmi. Che poi una volta la mamma mi picchiò fortissimo perché cantavo sempre la stessa frase. “Smettila con quel motorino!” Ma non ci riuscivo perché non capivo le motivazioni e alla fine riconobbi la voce della mamma solo quando ero per terra e mi usciva il sangue dalla bocca. Rosso, ma poi l’ha pulito. Ecco, si chiamava “motorino”. A volte si accendeva e dovevo ripetere le parole per fissarle nella mente e capirle. Una volta sola non bastava. Il dottore non mi avrebbe mai creduto. Io non lo potevo evitare, la canzone cantava da sola nel motorino. Ma non ho pianto e non ho risposto alle loro domande. Io non posso rispondere a troppe domande inutili. “Vuoi dare retta alla mamma o no? O vuoi andare in un collegio dove non vedi più nessuno e ti sbattono nella spazzatura i dischi?” Ma non ci riuscivo. E ci provavo, eccome. Una volta chiesi a mia zia Franca come mai quella poveretta stesse sempre girando senza che nessuno intervenisse. Lei rise a crepapelle dicendo che era solo una canzone. “Ma guarda”, pensai, “che bella risposta”. Lo sapevo benissimo che era una canzone, ma se quella stava male come mai nessuno interveniva? Ridevano. “Poverino è nato scemo, mica guarisce più”, diceva la mamma. “Tonto! È una canzone, can-zo-ne, parole, capito?” “Ma non aveva detto che la sua vita nelle mani di un ragazzo non la metteva più?” insistetti “e come mai allora continua a lamentarsi?” Questa mia domanda fece il giro del parentado, la seppe anche una sorella signorina di mio nonno che abitava in provincia di Foggia, ma nessuno si degnò di rispondermi. Il disco faceva due cose uguali ogni volta. Però non capivo come facevano a esserci due cose uguali, due parole, due storie, due canzoni uguali in un unico disco. La mamma mi teneva con lei, però a volte mi chiudeva da solo in camera e metteva delle cose alle finestre e mi metteva dentro la stanza tanti dischi. Io ballavo e cantavo. Sempre. Una volta mi sono svegliato nel letto con la mamma e volevo ballare. Ma non potevo: “il dottore ha detto che devo legarti, perché quando vai a scuola non puoi fare queste cose”. Speravo di farle di nascosto, sennò non mi dava più da mangiare, e avevo fame, come quella volta che non ho mangiato per due giorni. Poi alla fine mi ha dato il pane. A scuola, a scuola, a scuola, a scuola, a scuola. “Dottore, lo vede? Si inventa le cose, come quella che lo lego e che non gli do da mangiare.” La canzone “azzurro”, di Adriano Cementano, invece, pur essendo molto bella, secondo me non aveva nessun senso. Un insieme di frasi casuali, slegate e disorganiche: leoni, aerei, mare, baobab. Però suonava bene. Avevo cinque anni o sette o venti. I numeri servirebbero ad altro, ma sorvoliamo. E non capisco bene come si trova una moglie, ma è difficile trovarne una giusta, lo dicono ovunque. Ma non si devono assolutamente far girare forte come le bambole, o buttarle giù dalla finestra. No. Che poi le cose non me le ricordo esattamente come si susseguono nel filo della collana. La mamma non voleva che io spiegavo quella canzone, né che la ballavo. Non potevo e lo facevo di nascosto, anche chiuso in bagno. Ballavo da solo nel bagno. Che poi un giorno è arrivata una signora e mi ha portato via veloce. La mamma piangeva. E poi via, da un nuovo dottore. La mamma piangeva anche dalla finestra: “no, no”. “Chicco, tu puoi fare quello che vuoi, ma devi rispettare alcune regole.” “Chicco, lo sappiamo che spesso ti senti a disagio. Se segui queste semplicissime regole non lo sarai più. Il tuo disagio si chiama autismo, non fare il furbo, lo abbiamo capito che ci sono cose che ti danno fastidio più degli schiaffi di mamma. Ma ti garantisco che ti facciamo stare bene”. Era vero, ma loro me lo dicevano sorridendo. Erano bravi, ma non avevano l’odore della mamma e di papà. Però c’erano tante cose che mi scivolavano via da dentro la testa, però poi mi hanno portato in una scuola. Quelle cose nella mia testa ci sono sempre, anche se sono diminuite e delimitate meglio. Tutto è lineare, come in un corridoio sulle cui pareti ci sono dei quadri. E io guardo solo quelli che mi attirano, gli altri sono inutili. Almeno per me, oh! Adesso posso ballare e cantare, anche in pubblico, senza che la mamma mi picchi (né in privato, né davanti a tutti, come quella volta al bar che ballavo col juke box), anche se a volte il naso mi fa male, lui si ricorda, e anche le braccia e le corde che il dottore non vedeva. Posso cantare, quello che voglio. E io voglio il rap, e lo canto e lo ballo. Ci sono troppe cose da pensare per soffermarsi solo su una e ripeterla, la mamma adesso è felice e mi applaude. Abbiamo fatto anche un duetto e abbiamo ballato assieme. E ho capito quando è ora di piangere. E l’unica domanda è questa: “come si fa a non piangere vedendo Carla Fracci? O sentendo Eminem? O vedendo un hip hopper? E come si fa a non piangere sentendo una chitarra?” Io piango perché là c’è Dio. “E come si fa a non piangere sentendo il bolero di Ravel mentre Maya Plisetskaya lo balla su un tavolo grandissimo con tutti i ballerini satelliti attorno?” Piango. Ed Edith Piaf, “Rien de rien”. L’eternità è una cosa senza pareti. E io ci sono dentro ed è grazie alle regole che non mi ci perdo. Sono poche regole. Poche ed essenziali. Sono autistico, ma non devo dirmelo. Altrimenti si mette in moto il motorino. Posso solo scriverle certe cose, stando attento a certe regole. Un giorno mi dissero di provare a dipingere. Ci provai, ma poi smisi. Meglio smettere. Autistico, ossia che penso diversamente da molta gente. Ma gli schiaffi non mi arriveranno mai più. Facevano male, un po’, ma passavano con la musica. Tu sei cinese che hai gli occhi a mandorla, tu sei di colore che hai la pelle scura, tu sei altissimo, tu sei rosso di capelli, io sono autistico. Non c’è motivo valido per essere amici solo per avere qualche caratteristica uguale. Non esistono due cose uguali. Faccio le cose diversamente dagli altri, anche se sono un po’ vecchio. Vado a scuola di musica da tanti anni, di canto. E canto, quello che voglio, il rap soprattutto. Mi si era rotto il mangiadischi e mi si era messo in moto il motorino, però poi me lo hanno aggiustato e mi hanno dato un altro lettore cd, e li sento entrambi. E canto, il rap, e ballo. Mi piace ballare, e la musica. Sono grande adesso e mi stanco a ballare. Ma a cantare no. Ci sono le regole, le devo rispettare, mia mamma non mi picchia più, forse quella volta del sangue si è spaventata. E so a memoria trecentoventuno canzoni, le ho contate, le ho cantate. E contare e cantare sono parole simili, con Lucrezia abbiamo anche contato cantando. Erano trecentoventidue, ma l’ultima l’ho cancellata, perché sono autistico, è scritto anche in un foglietto che devo sempre tenere nel portamonete. Bastava una lettera e diventavo artistico. E Lucrezia ha provato a essere come quella signorina di Patty Pravo, ma piano, mica l’ho fatta piangere, che crolla tutto. Non canto la numero trecentoventidue, mi fa stare male. Se saluto qualcuno è perché si deve fare, per educazione. Sia chiaro: l’educazione è una cosa inutile, è sufficiente la normale tranquillità. Qui lo scrivo e qui lo cancello. E non si saluta cantando, almeno non le persone che si conoscono poco, devo contare le volte che ci parlo con una persona e poi vedo se la conosco molto. Questa è una delle regole, oltre ad altre. Adesso sto bene, diciamo. Che i concerti in cui canto me li pagano un pochino. Se non fosse che devo comprarmi delle cose da mangiare e da vestire e altre piccolezze, quei soldi sarebbero anche inutili. Me li conta Lucrezia e dice che servono sempre, i soldi. La mamma è vecchissima e piange sempre, anche da sola. Che poi è stonatissima. E papà? Non l’ho più visto.