Uno stupore di matrice plurima: quello ingenerato in chi legge, contrapposto – e mai compiacente – a quello che spinge il poeta; lo stupore per una nuova visione del mondo, impensata e non necessariamente positiva, ché il Poeta è principalmente uno stupito visionario.
Tutto ciò per introdurre Cinquantaseicozze, l’ultima fatica letteraria di Roberto Corsi [Italic Pequod, 2015].
Cos’è Cinquantaseicozze? Si tratta di un’opera non comune, da apprezzare centellinandone la lettura.
Partiamo dall’impaginazione: il testo non si presenta nella maniera canonica, per leggerlo dobbiamo girare di 90 gradi il libro rispetto alla copertina e sfogliarlo verticalmente. Ciò fa intendere che non siamo di fronte a un qualcosa da leggere così, tanto per rilassarsi o passare il tempo. No, per nulla. Questi versi sciolti, solo in apparenza assimilabili a una prosa, questa silloge di poemi – a tratti anche scollacciati –, in stile neo-pop, meritano un’attenzione particolare.
Ogni pagina è assimilata a una cozza che va aperta, come in una conviviale e succulenta impepata. L’autore le gusta una a una assieme al lettore, lasciandosi andare a coraggiose riflessioni (anche) sulla (propria) esistenza, dal particolare all’universale, passando per il personale. Senza soluzione di continuità, senza tralasciare quel fil rouge che ci lega ai miti classici, spesso nella nostra più vuota inconsapevolezza, ché sotto certi aspetti nulla viene creato, cambia solo l’interpretazione del momento. E anche qui non possiamo fare a meno di stupirci.
L’apparente sminuimento portato dal titolo e dalla struttura è dovuto al fatto che, con ogni probabilità, prima di essere aperte, quelle dell’autore fossero più poetiche ostriche, inevitabilmente riconvertite durante il successivo rito di poetizzatone, in una sorta di inconsueta, metaforica e blasfema, transustanziazione pagana. Ciò è desumibile dai tratti comuni sui quali ogni riflessione è incardinata: disincanto, disillusione, rassegnazione, annichilimento, ma anche giocosità, ricerca e tensione vitale positiva.
Il parallelismo con le cozze ben si attaglia con l’ambientazione e l’atmosfera: una spiaggia, spesso sul limitare della battigia, che autorizza qualsiasi incursione di frizzante (auto)ironia, oltretutto indispensabile al fine di evitare (non attenuare o alleviare, ma proprio evitare) quel senso di disperato decadimento che certe visioni potrebbero ingiustamente infliggere al lettore, soprattutto nella simbiosi col mito.
Una scelta accuratissima, quasi maniacale, delle parole; un prestigioso omaggio alla semantica, usata a sua volta proditoriamente come strumento innovativo – ricordiamoci del neo-pop – in una sorta di semeiotica volta a chiarire – o meglio a identificare, senza fisima alcuna, tantomeno di guarigione – la natura dei segni indelebili che portiamo addosso. E sta qui il genio dell’autore: nell’identificare un piano espressivo inedito sul quale sistemare una serie di circostanze, di momenti, di pulsioni e di istinti con cui abbiamo avuto tutti a che fare, almeno una volta, e nei cui confronti ci siamo comportati – sempre almeno una volta – come lui: passivamente, ma mantenendo una dignitosa quanto disarmante apparenza; componenti sulle quali restiamo, innegabilmente stupiti, a riflettere in solitudine, convinti che siano capitate – per sorte, o malasorte – solo a noi o solo per semplice imbarazzo perché crediamo di essercele meritate, o andate addirittura a cercare. Roberto Corsi invece decide di condividere con noi quello stupore, limitandosi a ricordarci che siamo spesso convinti di avere a che fare con ostriche con la perla, ma alla fine sono cozze. Sempre buonissime, per carità, ma meno, come dire, chic, soprattutto agli occhi degli altri, ma non per questo da buttare o da gustare in solitudine, magari in preda ad attacchi depressivi. O forse è il contrario, a noi sembrano cozze ma a occhi altrui appaiono ostriche del Pacifico.
Quello che più rileva è la scelta dello strumento e del metodo. Usati con il rito della poesia, imprimono all’opera il significato puro della sua esistenza, ossia un regalo prezioso: la possibilità di entrare in una dimensione dalla quale osservare un incredibile meccanismo. Un meccanismo complicato, perverso, che spesso ci illude, come in una sala di specchi, e rilascia frattali elettrici, racchiusi in una dimensione neo-pop, anche se in una scala cromatica meno estesa. Parliamoci chiaro, tutti viviamo una corposa dose di illusioni e altrettante ci vengono addebitate, così come le addebitiamo - o accreditiamo, a seconda dei casi o di come ci fa più comodo - a chi ci circonda, in una sorta di equilibrio di contrappesi.
Un’opera raffinatissima, un lavoro di introspezione notevole, resa da una penna magistrale; partorita da una mente superiore che, con ogni probabilità, è consapevole di non avere trovato un equilibrio nel senso stretto e classico, una mente in continua evoluzione, anche sul filo del mythos, l’unico cui fare un serio riferimento: superiore, appunto, che riesce a declinare lo stupore in una serie inaspettata di stati, sorprendendoci.