Queste regole non sono state per nulla rispettate da Mariolina Venezia quando ha scritto Maltempo, edito da Einaudi nel 2013, 250 pagine. A ciò si aggiungono uno stile faticoso, una sintassi urticante e una narrazione che a definirla farraginosa non si è nemmeno a metà strada, il tutto condito con abbondanti allungamenti di brodo che inducono il lettore (alludo a quello che non ama farsi prendere in giro) a fare coriandoli di questo libro (ossia ben 17,50 euro di coriandoli).
Come se non bastasse, una punteggiatura innovativa, al limite del casaccio, fa da cornice a una trattazione assolutamente incasinata: i dialoghi sono spezzettati, spesso non si capisce chi parla, più di una volta le scene si accavallano e prima di comprendere cosa sta succedendo bisogna andar di fantasia. In pratica un manuale su cosa non è un patto narrativo.
Imma, un Pubblico Ministero della procura di Potenza, riceve in ufficio la visita di una ragazza che la informa di avere notizie interessanti riguardo un grosso caso che lei sta seguendo e lei cosa fa? La ignora, la tratta con sussiego, in poche parole la snobba e la caccia. Ora, già qui ci sarebbe da chiudere il libro, visto che in Italia, e a maggior ragione a Potenza, una cosa del genere sarebbe quanto meno strana (ma chi è quel PM che caccia una persona che vorrebbe dare delle informazioni preziose su un caso?). Quella ragazza poco dopo viene ritrovata morta e il PM, risvegliatosi di colpo da chissà quale nirvana, si muove per scoprire cosa le sia successo. Lo fa in maniera assurda, scoordinata e, ovviamente, invocando tutti gli stereotipi oramai in decomposizione dell’investigatore: è sempre nervosa, imprevedibile, molto pensosa, ha scatti di maleducazione, ma in fondo è tanto umana e ha solo un amico del cuore. Certo, è tanto umana, come no, si può dedurre la sua umanità e la sua correttezza già da pagina 14, laddove ammette di essere certa dell’innocenza di una persona che lei stessa aveva fatto incarcerare ma che si ostinava a tenere dentro, vai sapere il perché. Qui, perdonatemi, sarebbe il caso di far presente all’autrice che - al contrario di quel che è pensiero di molti - non si può scrivere proprio tutto ciò che ci passa per la testa, anche se si è editi da Einaudi e men che meno se si ha vinto il Campiello (ché l’autrice lo ha vinto nel 2007, mica cotica).
Comunque, le indagini si protraggono perfettamente a vanvera finché non arriva il classico deus ex machina che risolve tutto: in questo caso una ragazzina sgallettata amica della vittima che, nonostante il PM non abbia trovato nemmeno uno straccio di prova a suo carico, candidamente confessa tutto alla presenza dell’immancabile “avvocato d’ufficio” svogliato, incapace e sonnolento (e meno male, altrimenti il libro sarebbe andato avanti per altre millemila pagine senza una mèta, come una barca alla deriva, alimentando gli istinti violenti del lettore). Una trama inutile, trattata, oltretutto, con una sciatteria esemplare. Per non risultare più noioso del libro stesso, cito solo pochi passaggi che denotano la penna che ha dato vita a questo capolavoro, in cui, tra le altre cose, ci si premura di far dire alla protagonista che il turismo sarebbe da abolire, fatevi un po' due conti:
“Era consuetudine il sabato mattina, poiché Pietro [il marito del PM] non andava in ufficio, che fosse lui a portarle in caffè a letto, dove a volte indugiavano o anche altro, visto che Valentina [figlia del PM] stava a scuola e potevano sottrarre un po’ di intimità alle incombenze quotidiane senza crollare chi da una parte chi dall’altra come i soldati alle Termopili” (pagina 7, cosa voglia dire e cosa c’entrino le Termopili lo sa solo l’autrice);
“… sulle rocce rosate delle dolomiti lucane, che si stagliavano contro il cielo di un azzurro così pulito che sembrava lavato col Dixan” (pagina 31 e sorvoliamo sulle maiuscole mancate);
“Imma studiava la deposizione della vicina di Paolicelli [un giornalista aggredito] che aveva assistito dalla finestra a quella versione riattualizzata della vecchia favola del lupo e dell’agnello…” (pagina 43, ma avrà mai letto, l’autrice, quella “vecchia favola”?);
"Si dirigeva verso la fila mettendo con cautela i piedi uno davanti all'altro a formare tanti piccoli emicicli, come dovevano averle insegnato in qualche corso da indossatrice. Aveva i capelli di un biopndo generico..." (pagina 77, ma come cavolo cammina questa ragazza, non sarà zoppa? E poi, il biondo generico... vabbe', va...);
per finire, sempre in tema di perle sciatte, abbiamo quella di pagina 179: “… seguita da quattro della PG, un giovane maresciallo, un brigadiere e due carabinieri, tutti ragazzoni, in una versione invertita di Biancaneve e i sette nani…”, no comment.
Nel folle tentativo di dare un po’ di consistenza al suo personaggio plastificato, l’autrice non perde occasione di sottolineare come TUTTI i collaboratori non riescano a comunicare con il PM senza balbettare, senza arrossire, senza sentirsi a disagio o senza dire una frase intera e di senso compiuto per volta, ossia addebitandole una sorta di potere intimidatorio completamente fuori luogo sia per un PM, sia per le indagini, visto che di solito nelle Procure c’è una sinergia di ben altro calibro, tutta tesa alla risoluzione dei casi. Ne consegue che tutti i personaggi presenti in questa specie di libro sono pressoché simili, monodimensionali. Complimenti per la capacità di astrazione.
Se l’autrice si fosse documentata un po’ meglio su certe dinamiche, avrebbe scoperto che in una Procura, ad esempio, non esiste un generico “ufficio atti”, oppure che il delitto di “abuso d’ufficio” che lei nomina a un suo collaboratore è completamente fuori luogo, o, ancora, che l’articolo 5, citato sempre a quel suo collaboratore, esiste solo nella fantasia, così come molti reati, citati forse solo perché hanno un bel nome, oppure che chi frequenta la Scuola Sottufficiali per diventare, appunto sottufficiale dell’Arma dei Carabinieri (Scuola che oltretutto non è neppure a Roma, come pretende di sapere l’autrice), ha orari e obblighi ben precisi, non può fare come gli pare, come invece succede in queste pagine. Ma ciò è nulla, in confronto al resto.
Anche la moda di non rileggere ciò che si è appena scritto pare sempre in voga, infatti - giusto per citare un episodio - a pagina 90 ci si lamenta di non riuscire trovare una certa villa dove si sarebbe tenuta una (originalissima…) festa (con gli immancabili potenti di turno un po’ maiali e pedofili), mentre poche pagine prima è stato affermato esattamente il contrario, ossia che quella villa era stata identificata ma, poiché c’era buio, ci si era ripromessi di tornare successivamente.
Per tornare agli stereotipi, se si decide di sfottere - mioddio che cosa spiritosa! - un Sardo non basta l’accento (peraltro inventato, visto che non esistono sardi che parlano come il Puddu di questo libro) né citare nomi di posti che finiscono con la u, altrimenti si finisce per scrivere “inesattezze” (ecco chiamiamole così) come quella relativa al Santo patrono di Quartucciu, invocato dall'autrice in un momento in cui evidentemente si sentiva molto spiritosa, Santo che, peraltro, qui c’entra un po’ come la panna sulle aringhe, d’altro canto tutto il libro sembra la fiera del kitsch virante al trash. Oltretutto la protagonista odia i sardi perché leccavano il culo ai Sabaudi (pagina 43) e i napoletani, il perché di questi utimi lo sa solo l’autrice che, dal canto suo, raggiunge l'apice della pienezza filosofica laddove afferma che, purtroppo, "al giorno d'oggi non ci si può più fidare di nessuno". Da queste considerazioni ci si rende conto della profondità del tutto.
Non voglio trattare le numerosissime pagine, per non dire interi capitoli, appiccicate - oltretutto male - per allungare il brodo, per non risultare stucchevole.
Questo libro è un minestrone male assortito di luoghi, di nomi, di fatti e di circostanze, in cui, è chiaro, l’inconsistenza stilistica e quella narrativa vengono gabellate come punto di forza, ma è altrettanto chiaro che l‘editor, casomai l’abbia iniziato a leggere, alle prime pagine si è ipnotizzato e lo ha dato per buono, non c’è altra spiegazione, anche per ciò che riguarda il titolo che si attaglia perfettamente a questo coacervo di parole simile a un ginepraio.