Un destino peraltro facilmente intuibile e già, sotto certi aspetti, iniziato, che vede città con edifici oramai in rovina e persone con ancora addosso i vestiti di qualche anno prima, quando c’era ancora un po’ di benessere.
Non è chiaro se questo - terribile - panorama post-atomico in cui la storia è ambientata sia voluto dalla classe “dirigente” o sia, piuttosto, la nemesi di un limite invalicabile delle capacità umane di autogestione, resta il fatto che nel mondo ipotizzato da Zardi regna l’anarchia più completa e trionfa la tecnologia più inutile, tramite la quale vengono diffuse notizie in pieno stile Orwelliano, tanto da convincere la popolazione a convivere con un non meglio identificato "declino", che poi sarebbe l'odierna "crisi" tanto sbandierata a mo' di alibi e di spauracchio, forse per mascherare il fallimento della democrazia "occidentalizzata".
Il protagonista, un venditore di depuratori domestici per acqua, riesce ancora a mantenere un tenore di vita decente grazie alle sue capacità di persuasione, in un mondo in cui oramai anche l’inquinamento globale è sfuggito a ogni controllo. La sua famiglia viene scossa da un dramma improvviso e imprevedibile e lui, districandosi come meglio può in quel pantano maleodorante che è diventato l’Occidente, cerca di venirne a capo.
Sull’opera grava un grigiore, una rassegnazione che non possono lasciare indifferenti: è chiaro che i segnali di arrivo di quel mondo, oggi, qui, ci sono tutti ed è difficile non farsi prendere da una leggera, chiamiamola così, disperazione anche solo affacciandoci alla finestra.
Ma quello che più inquieta è quel senso di assenza che permea tutta la storia; un’assenza che induce smarrimento e alla quale sembra impossibile rimediare, un'assenza che non si sa se sia fuga, soccombenza, disinteresse o trasformazione dell'essere umano in qualcosa di terribile dopo un reset, alla fine di un ciclo che sa tanto di profezia Maya e di transizione verso l'ignoto.
In quel mondo preapocalittico il protagonista mette da parte tutto ciò che incombe sulla sua vita e fa la scelta meno popolare, ma più coraggiosa: si affida all’amore istintuale, primordiale, nella speranza di recuperare tutto il recuperabile e ricompattare la sua famiglia. Una scelta slegata da ogni logica in un ambiente privo di logiche; una scelta dettata dalla disperazione del naufrago che si aggrappa a qualsiasi cosa, in questo caso ai sentimenti.
I sentimenti, quindi, appaiono come le radici profonde e robuste di una pianta da frutto che viene continuamente agitata al fine di sfruttarla fino all’ultimo e che resiste finché può.
Quest’opera è candidata per l’assegnazione del Premio Strega 2015 e dovrebbe essere letta da tutti coloro i quali hanno incarichi di governo, ma proprio tutti. È una profezia verosimile e, si spera, proprio perché svelata, non si avveri, in una sorta di scaramanzia letteraria inversa.
Un’opera che non lascia scampo all’ottimismo classico ma che trova il modo di suggerire vie alternative per la sopravvivenza. Ecco, sopravvivenza e speranza di riuscire a inventare e rendere abitabile una bolla di esistenza insperata e inimmaginabile, dal personale all'universale, a reinventare un mondo, finché la vita soccorrerà.
Un solo appunto su un elemento che mi lascia perplesso: la figura della donna. Viene trattata, a mio giudizio, in maniera ingiusta, isolata e codificata con un approccio Kafkiano e ciò - soprattutto nel contesto di XXI Secolo - non appare giustificabile, neppure nell’ottica già citata dell’assenza. Che ciò sia dovuto all’imbarbarimento del mondo o alla decadenza globale in cui vive il protagonista, oppure a ciò che rimane dopo la scarnificazione quotidiana che erode e corrode tutte le certezze? O a uno stupefacente approdo Darwiniano dovuto all’evoluzione? Non saprei, ma sarebbe bello pensare che se salvezza ci sarà, il merito sarà da attribuire al genere umano, senza distinzione di sesso o genere.
Sempre se il genere umano riuscirà a salvarsi da se stesso. O sempre che la salvezza sia contemplata nell’orologio del suo DNA.
Un’opera magistrale.