Gaja Cenciarelli, (non solo) scrittrice, traduttrice romana e redattrice di Vibrisselibri, gestisce il blog letterario Sinestetica.net.“Sangue del suo sangue” (Nottetempo, 2011), romanzo di formazione, è il suo terzo lavoro importante, dopo Extra omnes (Zona Editore, 2006), dedicato alla scomparsa di Emanuela Orlandi e Il cerchio (Empirìa edizioni, 2003); ha curato inoltre Auroralia (Zona editore, 2009), una raccolta di racconti su una fotografia di Jerry Uelsmann (che ospita anche un mio racconto). L'ho intervistata qui.
Margherita Scarabosio, figlia del generale dei Carabinieri Rodolfo Scarabosio, abita a Torino e subisce fin da piccolina, assieme al fratello Massimiliano, un’educazione alienante: entrambi vengono costretti, oltre che a una rigida disciplina, anche a gravissime vessazioni fisiche e psicologiche, sotto gli occhi inermi della madre, anch’ella vittima silenziosa, per non dire complice passiva, del marito.
Margherita ama studiare, ma vive nel costante timore di essere ritirata dalla scuola, perché secondo suo padre una donna onesta non deve avere interessi se non per la casa e il marito; è sottoposta a una dieta ferrea, che la lascia praticamente sempre in balia dei morsi della fame, e non può avere amicizie di alcun tipo, l’unica volta che viene sorpresa dal fratello mentre passeggia con un amico, Pierfrancesco, una volta tornata a casa subisce le ire terribili del padre.
Anche suo fratello Massimiliano ama la scuola, ama soprattutto leggere, ma deve farlo di nascosto perché il padre gli fa capire che un vero uomo ha solo interessi virili, e la lettura è una cosa molle, e che un vero uomo deve sottomettere tutto e tutti, con ogni mezzo.
Il generale Scarabosio viene ucciso dalle BR in un agguato il 12 gennaio 1986 e la madre – una donna elegantissima e apparentemente algida, ma è solo un relitto sopravvissuto alle bestialità del marito - continua l’azione “educativa” del padre, finché dopo qualche anno muore investita da un tram, quasi senza nemmeno accorgersene, tanto la sua mente è oramai consunta.
Dopo la morte di entrambi i genitori, Margherita per qualche anno resta sola col fratello, che accudisce in tutto e per tutto e di cui sopporta in silenzio la violenza. Un giorno, sono passati quasi vent’anni dalla morte del padre, riceve l’invito da parte di Pierfrancesco, (il ragazzo con cui passeggiava clandestinamente e di cui era segretamente innamorata, anzi per il quale provava un sentimento strano e indefinibile), nel frattempo emigrato a Roma, a presiedere un “Comitato per il sostegno ai familiari delle vittime del terrorismo”, sorto in realtà per meri, e biechi, scopi elettorali.
Margherita quindi trova la forza di fuggire da Torino per andare a Roma, dove l’aspettano un ufficio tutto suo e una serie d’impegni e di discorsi, tutti predisposti accuratamente da altri e infarciti di banale retorica. Nell’ufficio conosce Camilla “Milla” Baravelli, un’infiltrata di un gruppo di rivoluzionari. Con lei inizia il suo primo vero rapporto umano e ben presto scopre il suo doppio gioco, ma non ne fa parola con nessuno.
Nel frattempo suo fratello Massimiliano, oramai ridotto a un fantasma che sopravvive a se stesso, va a Roma per cercarla.
Il finale è una nemesi: una scena in cui trionfa la morte fisica, sopraggiunta a quella morale e intellettuale dei personaggi con i quali Margherita viene in contatto. Una morte che scaccia i suoi fantasmi e le permette, almeno così sembra, di iniziare finalmente una vita il più possibile “canonica”.
L’ho letto in un week end in cui volevo rilassarmi, ma non è un libro piacevole nel senso classico della parola, non è un romanzo rilassante. Ogni pagina è uno schiaffo che riporta alla realtà, che costringe a prenderne atto. Non è un’opera da leggere così, tanto per. Non è scorrevole, almeno per ciò che concerne l’attenzione del lettore, ma impone frequenti interruzioni di riflessione sulla bestialità umana, resa ancor più terribile dal difetto della ragione:
Generale, il tuo carro armato è una macchina potente.
Spiana un bosco e sfracella cento uomini.
Ma ha un difetto: ha bisogno di un carrista.
Generale, il tuo bombardiere è potente.
Vola più rapido di una tempesta e porta più di un elefante.
Ma ha un difetto: ha bisogno di un meccanico.
Generale, l'uomo fa di tutto.
Può volare e può uccidere.
Ma ha un difetto: può pensare.
[Bertolt Brecht]
La copertina: una camicia candida, stirata e inamidata in maniera ineccepibile, su cui appare all’altezza del cuore un piccolo rivolo di sangue. Un cuore colpito che sanguina, anzi tanti cuori che sanguinano senza poter morire come vorrebbero - o dovrebbero -, nonostante l’apparenza per bene, tra tanti colletti bianchi.
Un romanzo connotato da situazioni forti, anche scabrose, trattate dall’autrice con sorprendente – ma per me sconvolgente – realismo. Personaggi dediti al più becero carrierismo, ambienti in cui la manipolazione dei sentimenti prima e delle persone dopo incombe inclemente; un mondo dove le persone vengono soppesate solo in base al timore che riescono a incutere e – come in una sorta di binomio maledetto – alla loro ricchezza economica anche potenziale. Un teatrino di “non persone” in cui spicca Margherita, che durante i discorsi ufficiali in cui si rievoca l’assassinio del padre non riesce a nascondere un lieve sorriso, colto solo da poche persone.
Margherita si è vista sistematicamente cancellare, fin dal momento in cui è nata, la consapevolezza di sé, la consapevolezza dell’esistenza. Non capisce di vivere, accetta passivamente – anzi lì per lì è convinta che sia giusto – tutto ciò che lo sventurato padre ha imposto nella sua famiglia e non sa che ha un corpo e che lo può usare, non sa che ha un cervello, una mente, una parola, un libero arbitrio. Margherita ha paura di tutto, vive convinta di essere inutile e di essere destinata solo alla casta degli schiavi. Roma le dà una prima sferzata, le fa capire che può camminare e guardare tutto e tutti senza incorrere in una punizione, avvia la sua rinascita e la prima cosa che fa è quella di ingozzarsi di cibo, cosa che le era assolutamente proibita prima.
Il rapporto con il suo ex compagno di studi è profondamente cambiato, lei sperava di ritrovare colui che aveva salutato anni prima, ma si trova di fronte una macchina programmata per far soldi e acquisire potere.
Su questo palcoscenico aleggiano anche le trame del terrorismo, trame peraltro mai chiarite, che viene trattato e rivisitato senza dietrologia o luoghi comuni: un fatto, come altri, più o meno deleteri, ma non di certo più pericoloso delle fosche trame dei politici che hanno chiamato Margherita, un gruppetto raccogliticcio di sepolcri imbiancati che cerca di arrivare colà dove si puote accondiscendendo a – e di conseguenza imponendo, laddove può - ogni vuolsi.
L’autrice ha delineato fatti, personaggi e situazioni maledettamente bene, in un’opera che va centellinata, che ci toglie le fettine di prosciutto che abbiamo sugli occhi per batterci in faccia una ragazza che per ben due volte ha avuto “fame di morte”, ma che non è morta mai del tutto. Un romanzo che ci fa riflettere sul legame tra corpo e vita, tra vita e vivere, sugli agganci ai quali reggersi per sopravvivere, anche nostro malgrado, anche se taglienti, sul rapporto tra essere, sentire e volere.
Questi appigli per qualcuno sono i soldi, per altri l’immagine, per altri il sesso, per Margherita sono la musica e un film, “C’era una volta in America”, che rivede ossessivamente anche nella propria mente, scena per scena, nota per nota e che l’aiuta a trovare una spiegazione, irrazionalmente, a tutto, perché lei non ha visto altro, come un popolo che decide bestialmente di fuggire, appeso all’ultima scintilla di vita. Margherita è costretta a vivere un vulnus che lei stessa crede divino, inevitabile, in un mondo completamente asincrono, in cui tempi e aspettative hanno come unico punto in comune l’interesse nell’accezione più laida del suo significato. Quante Margherite abbiamo conosciuto, con tutto il carrozzone al seguito? Quanto di ciò ci appartiene? C’è una cosa che fissa fin da subito quest’opera nella mente di chi ha la fortuna di leggerla: una mongolfiera azzurra che Margherita vede non appena arriva a Roma.
“La mongolfiera non c’entra niente con tutto il resto, eppure lì in mezzo è giusta.”
La mongolfiera che le permette di agganciarsi affinché non si recida il filo tra corpo, mente e vita.
E quando Margherita si allontana dalla scena finale, chissà perché ho sentito il sax di “The logical song”.
E qui Erasmo da Rotterdam avrebbe di che sbizzarrirsi.
Concludo con le parole di Gaja, in risposta al mio sms in cui mi dicevo a dir poco sconvolto dalla lettura:
“Caro Mario, innanzi tutto grazie di cuore per avermi letto e apprezzato. Mi sono emozionata davvero tanto per le tue parole. La cosa curiosa è che solo due persone mi hanno scritto "non tutti gli uomini sono così", ed entrambe queste persone sono uomini. È strano ma io non volevo dare una raffigurazione emblematica degli uomini, quei personaggi sono funzionali alla storia. mi servivano così. a ben guardare, anche le donne non spiccano per bellezza interiore...
Non so se io abbia avuto coraggio o meno, ho avuto il solo coraggio della scrittura e non è poco, lo so. Credo anche nella scrittura terapeutica e catartica, nella scrittoterpia, come la chiamano. Ma credo soprattutto che la letteratura vera sia quella cosa che ti porta a parlare di te stesso senza parlare di te stesso. quando, per la prima volta, presentai il romanzo dissi: "questa storia non è affatto autobiografica, eppure non c'è una virgola che non parli di me. Insomma, spero di non averti annoiato...”
… ma proprio per nulla.
Un romanzo notevole, in cui anche le virgole, quelle di cui mi hai parlato, sono messe con rara e maledetta maestria, a scandire un mondo che volere o volare ci appartiene. Queste sono pagine che puzzano di vita.