Ricordate chi è Rossana Massa? È l’autrice di Memorie di nebbia selvatica, di cui avevo parlato qui, ed è anche la simpatica maestra elementare di Alessandria che aveva augurato la morte ad alcuni sardi durante l’alluvione del novembre 2013.
Poco tempo fa ho scritto che avrei dovuto rivedere le mie convinzioni in ordine all’autopubblicazione, ma, dopo avere letto quest’”opera” sospendo un attimo il giudizio: l’impressione che si ha dopo averla terminata è di essere appena usciti da un ginepraio. Sono TUTTE pagine faticose, che si fanno beffe anche della sintassi di base e se pensiamo che sono state prodotte da una maestra elementare, restiamo a dir poco perplessi. Spazi e punteggiatura, poi, sembrano lanciati a casaccio tra le parole. Comunque l’autrice mette le mani avanti e, a pagina 4, dopo avere sentenziato che per essere pubblicati da una casa editrice “canonica” si deve essere introdotti, ricchi e raccomandati - oltre che vanesi -, spiega, ostentando fierezza, di essersi autopubblicata dopo essersi curata da sola l’editing. Ma che brava, proprio da esserne fieri.
Sorvoliamo sulla copertina, ventotto immagini fuori fuoco, sgranate e sproporzionate che dovrebbero richiamare l’ambiente dei bar degli anni ’60. Sembra invece un catalogo. Sorvoliamo anche sulla quarta di copertina, è meglio, e passiamo al merito della narrazione, al netto degli orrori sintattici (che dovrebbero far incendiare il libro per autocombustione, ma forse è fatto con qualche materiale innovativo).
La trama. La trama è che non c’è trama. È la lunga e noiosa storia di un bar, e dei suoi clienti abituali, talmente inverosimile che lascia spiazzati. Cinque amici con una vita (ovviamente) infelice, dediti ai pettegolezzi, che hanno, chi più, chi meno, degli scheletri negli armadi e che frequentano il bar di un loro amico, da sempre. Cose interessantissime, come no. Una narrazione frammentaria, che contempla episodi e circostanze assolutamente banali, ma spacciate come emblemi di vita. Un pasticcio, un minestrone, un’insalata di tutto e di più, con un piccolo giallo sul finale, che dovrebbe fungere da deus ex machina, ma che invece dà il colpo di grazia al lettore e all’”opera”. Quel bar sembra il centro motore dei vizi, del male e di tutte le cose più brutte dell'universo, lo sfogatoio e, al contempo, la fabbrica di ogni immoralità. Una cosa tremenda (per il lettore).
I personaggi. Quello che salta subito agli occhi è la caratterizzazione in negativo dei personaggi femminili: tutte donne arriviste, squallide, con tendenze alla prostituzione, ladre, cagne, goffe, eccetera. D’altro canto anche nel suo precedente capolavoro (Memorie di nebbia selvatica) aveva lasciato intendere la stessa visione kafkiana del genere femminile (vedo il signor K che sorride dall’aldilà, forse sta pensando di mandarle i due Ispettori).
Dei personaggi maschili, invece, non si capisce un beneamato nulla. Vengono appiatiti e descritti a casaccio. Quando sembra si stia parlando di uno, invece si è già passati all’altro. Sono tutti accomunati da una sorta di cameratismo di plastica, un “tutti per uno – uno per tutti” che esiste solo nella mente dell’autrice, ma che anche lì ha vita breve, visto che alla fine del libro ognuno di quei personaggi di cartone dimostra di farsi bellamente gli affari propri.
L’autrice non ha (neppure) particolare abilità nelle descrizioni. Ad esempio a pagina 10 descrive il padre del titolare del bar, un uomo non più autosufficiente perché affetto da una demenza senile gravissima, come una persona “dalle scarse esigenze”. Andiamo bene. Sempre lui, quando era in buona salute, continua l'autrice, “nutriva simpatie ereditarie” per Mussolini (cosa sono le simpatie ereditarie non lo sapremo mai), di cui esibiva con orgoglio una foto in cui compariva “in orbace”, ma di fatto esternava forti tendenze comuniste. Come facesse rimarrà per sempre un mistero.
E così per tutti i personaggi: una pioggia di informazioni scoordinate, contraddittorie e di fatto totalmente incolori. Di tutta quella gente è impossibile ricordarsi il benché minimo particolare. Continuare su questo argomento significherebbe essere più noiosi del libro stesso.
Oltretutto rileggere ciò che si è appena scritto, o mantenere una certa linea narrativa, diventa sempre più difficile, infatti mentre a pagina 10 si dice che una badante era molto corretta e non frugava mai nei cassetti del suo assistito, dopo circa dieci pagine si dice esattamente il contrario, ossia che rubava a piene mani tutto ciò che trovava, dai bicchieri alle perle che il figlio del titolare del bar nascondeva in un cassetto; per non parlare della vestaglia aperta sul davanti che indossava una delle tante donnacce che popolano questo capolavoro: aperta, sì, quindi non si capisce cosa voglia dire che l’uomo con cui ella si stava intrattenendo iniziò a baciarla “sbottonandole la fila della vestaglia”. È bene sorvolare anche sul “vino di scadente qualità” presente nel retrobottega di quel bar che, tra le altre cose, era anche una trattoria la cui cucina era apprezzata in tutti i luoghi e in tutti i laghi, tutti accorrevano da ogni dove per gustarne le prelibatezze (quindi, o i clienti erano tutti scemi che apprezzavano del vino scadente, o l’autrice non rilegge ciò che scrive). Boh. Ma questo è il minimo se si considera che ci sono intere pagine di una noia mortale, lunghissime disquisizioni sociologiche de noantri dall’effetto soporifero, chilometriche riflessioni sulla vita della stessa consistenza del sottovuoto spinto, interminabili elucubrazioni sul perché dei perché.
In ordine all'ambientazione la situazione non cambia, quel bar a volte sembra una bettola, altre un locale molto ben frequentato, altre ancora un posto desolato e puzzolente, quando non è la trattoria più prestigiosa della Guida Michelin (ma in cui si somministra del vino scadente ai clienti). No, davvero, non ci siamo.
Non mancano, ovviamente, le scene hard, descritte con linguaggio da oratorio femminile durante l'ora di ricamo. Alcune si svolgevano nel retrobottega e, ovviamente, né il personale - che andava aventi e indietro, composto da persone attente, sveglie e molto ficcanaso - né i clienti, si accorgevano di nulla.
Il top narrativo è raggiunto a pagina 94, in cui si racconta che a casa di una persona viene ritrovata “una quantità notevole di DVD porno, in cui troneggiavano anche trans e gay, in atteggiamenti molto intimi”. Probabilmente i trans e i gay erano lì sullo scaffale a guardia dei DVD porno e si sa che, dopo un po’ di convivenza - e di noia -, l’intimità nasce (anche perché se i trans e i gay fossero stati attori dei video contenuti nei DVD, sarebbe stato inutile, credo, precisarne gli atteggiamenti, anche se quell'"intimi" dà un tocco davvero trasgressivo alla circostanza, ma anche se fossero state, che no so, suore e camionisti, per dire).
Alla fine restano le domande già formulate per la precedente opera: perché? A cosa serve questo libro? Cosa lascia nel lettore? Oltre al fastidio??