Alessandro Stellino, giovane scrittore sardo, residente a Milano e con una passione militante per il cinema, spiega la sua visione di verità e di realtà nel romanzo Incendi, racconto di fine estate (2011, Il maestrale, 140 pagine, € 16,00).
L’autore si affida a due capisaldi classici, ossia a due – chiamiamoli così, ma non in senso dispregiativo – luoghi comuni: i bambini e la stampa.
L’innocenza e il candore dei bambini sono da sempre considerati una garanzia di sincerità, mentre, dall’altra parte, si è soliti ritenere vera qualsiasi cosa scritta sul giornale, quasi come se questo si scrivesse da solo tra le mani del tipografo.
Perla è una bambina un po’ particolare, chiacchierona, vivace e intelligente, vive in un posto imprecisato della riviera di Sorso, in provincia di Sassari e si esprime con un linguaggio derivato dal sardo (che lei italianizza, spesso in maniera esilarante). Nella prima parte dell’opera ci racconta una vicenda vissuta in prima persona durante l’afosa estate del 1986, proprio nella zona in cui abita; spesso mischia fantasia e realtà tanto che non si capisce quando dice la verità o quando esagera, tuttavia quando vuole che le si creda a tutti i costi conclude il discorso dicendo “la verità”. Ecco, forse quello è l’unico momento in cui la si può credere.
Nella seconda parte, la stessa storia, che poi è una vicenda di cronaca nera, viene affrontata con il freddo stile dell’inchiesta giornalistica. Siamo nel 1986, le tecniche investigative non sono troppo efficienti e ci si basa più che altro sull’intuito di giornalisti e investigatori, che si affannano in una sorta di anastilosi della realtà. La storia che Perla ha vissuto in prima persona, peraltro in maniera tutto sommato piacevole, viene ricostruita sotto un’altra angolazione, al pari di una fotografia che prevede anche il “negativo”. Ma non si capisce quale delle due visioni sia il “non” negativo.
Insomma, Lilly e Marco, i due ragazzi al centro della storia raccontata da Perla e poi ricostruita sui giornali, assumono diverse connotazioni e alla fine il lettore, pur avendo compreso appieno il senso della vicenda, non riesce a metterne a fuoco i contorni, in una sorta di déjà-vu Pirandelliano in cui l’osservatore oscilla tra più poli: la verità non esiste – esistono più verità – la realtà viene distorta.
Assodato che verità e realtà nascono dalla combinazione dei singoli fatti, resta sempre quell’alea per mezzo della quale è possibile fare un’infinità di ulteriori considerazioni e ipotesi. E, si badi, come peraltro bene evidenziato in quest’opera, a nulla vale la percezione diretta: l’indefinito, per quanto dai margini ridotti, persiste, indelebile.
Un maturo romanzo d’esordio in cui stile e registri narrativi – estremamente efficaci – rendono l’opera non fine a se stessa – oltre che piacevole – e predispongono il lettore a una riflessione su ciò che è, su ciò che appare e su ciò che alla fine, dopo la decantazione, resta ai posteri.