Cinque anni fa è uscito Elettra, l’ultimo suo album, poi, dopo una pausa di riflessione - durante la quale ha anche dedicato le sue cure e la sua attenzione al figlio Carlo Giuseppe, nato a luglio 2013 -, il 20 gennaio è tornata con un nuovo capolavoro intitolato L’abitudine di tornare, per Universal Music, un album di dieci pezzi che fotografa la nostra bella Italietta.
Dieci gioielli realizzati con quello stile tutto suo, apparentemente un po’ scanzonato, ma che non dà scampo. Uno stile per lo più lineare, con elementi in comune a tutti i pezzi, in cui avverbi e aggettivi vengono caricati con più forza rispetto agli altri elementi. E non ce n’è uno fuori luogo, o fuori posto.
Dieci poesie che inchiodano senza appello i vizi e le virtù della gente.
L’abitudine di tornare - prima traccia che dà il nome all’album;
Ottobre – una poesia dedicata all’amore omosessuale tra due ragazze adolescenti;
Esercito silente – una coraggiosa denuncia contro la mafia;
Sintonia imperfetta - monotonia di un rapporto di coppia;
La signora del quinto – un'ipotesi di femminicidio;
Oceani deserti – in collaborazione con Max Gazzè;
E forse un giorno – uno zoom sulla crisi della nostra classe media;
San Valentino – un’ode inversa all’amore, lontana da ogni stereotipo;
La notte più lunga – dedicata gli sbarchi dei clandestini;
Questa piccola magia - una dedica al figlio di due anni a chiusura dell’opera.
Quello che mi ha sempre colpito nei testi di Carmen Consoli – anzi, più che colpito, direi emozionato, steso – sono la genialità e la potente delicatezza che recano in sé, segno di altrettanti pregi nella personalità di chi li ha pensati prima e scritti poi.
In questo album la vetta è toccata, per due motivi diversi, dai brani La signora del quinto piano e La notte più lunga.
Nel primo viene trattato il tema del femminicidio con formidabile simmetria tra le fisime vessatorie di lui e lo stato di completo disagio e disadattamento indotto di lei. Qui si è giocato di fino.
Nel secondo viene trattato il tema degli sbarchi dei clandestini e subito il paragone corre al pezzo di Vecchioni, Chiamami ancora amore. Ecco sarebbe come paragonare lo champagne col tavernello: la superiorità stilistica con cui l’autrice butta in faccia all’ascoltatore questo dramma senza scampo è degna della miglior letteratura di tutti i tempi. Ineguagliabile.
A corredo di questo capolavoro, oltre a una coraggiosa denuncia contro la mafia, c’è una collaborazione con Max Gazzè, assieme al quale ha scritto la musica di Oceani deserti, e un omaggio di una raffinatezza senza eguali a Voglio vivere così, il famoso pezzo di Ferruccio Tagliavini, e anche qui il pensiero mi corre alla superba interpretazione di Grazie dei fior, durante il Festival di Sanremo del 2010, alla presenza di Nilla Pizzi. Di solito le cover hanno sempre un qualcosa di meno rispetto all’originale, ma in questo caso no, sono due originali, da struggersi.
Ci voleva nel panorama musicale grigio e stagnante di questi tempi la sua testimonianza, il suo canto che nasce in sordina e riesce a penetrare ovunque - proprio perché tratta gli argomenti sempre da un punto di vista estraneo ai luoghi comuni -; ci voleva la sua dsarmante denuncia sociale che in poche righe, e in poche strofe, ci ricorda quanto siamo miseri, ma quanto ci vorrebbe poco per migliorarsi. Ché la poesia è anche denuncia.
E non riesco a smettere di ascoltarla, perché per me questa è poesia angelica, sublime e incontestabile.