Difficile, ma non impossibile, come ha dimostrato Manuela Minelli con la sua raccolta di racconti intitolata Femmine che mai vorreste come amiche [prefazione di Cinzia Tani, La vita Felice, 2014].
Già dalla lettura di queste sei parole, il lettore inizia a pensare, catalizzato, sul perché mai non le si vorrebbero come amiche e, soprattutto, sul perché del termine “femmine”, anziché “donne”. La risposta arriva ad aggredirci dopo aver letto i primi racconti: nessuno vuole seccature, nessuno vuole caricarsi dei problemi altrui se non tramite un semplice: “Io ci sono, eh”. Ma poi, di fatto, non c’è.
Nessuno le vorrebbe come amiche perché, di fatto, l’amicizia, spesso, anche se sembra una banale frase fatta, va di pari passo con l’egoismo. Con l’avvento dei social e la globalizzazione, c’è tutt’un brulichio di indignazione per le cose più disparate ma, di fatto, l’umanità sta andando a rotoli. Perché siamo un’umanità disumana, fatti rari casi, che però non riescono a supplire a tutte le magagne.
E siamo destinati all’estinzione.
Ma poi, dicevamo, perché “femmine” e non “donne”? Anche su questa scelta si apre un ampio corollario a ciò che ho appena scritto: una donna è una persona ben strutturata e consapevole pienamente del proprio ruolo, emancipata e di fatto affrancata da stereotipi (quasi perfetta, diciamo), al contrario del termine, usato in questo caso in maniera provocatoriamente negativa, ossia “femmine” – quasi un epigono di femminicidio – cioè persone che portano solo problemi, non allineate al modello più comodo per la comunità.
Ma esiste la stessa differenziazione tra uomini e maschi? Sì, esiste ma con diversa gradazione.
E, visto l’egoismo posto alla base del fatto che nessuno le vorrebbe come amiche – al massimo come conoscenti, oppure amanti occasionali, se proprio non se ne può fare a meno –, ecco che si crea quel meccanismo perverso che allontana sempre di più le persone dalla realtà, che ispessisce la coltre di nebbia attorno a persone e cose fino all’inevitabile distacco.
Una sorta di selezione naturale malfunzionante.
Racconti che hanno come filo conduttore la condizione di “femmine”, per usare la parola del titolo, abbandonate (quasi) a se stesse da un mondo fatto di persone svogliate – e non necessariamente solo uomini – che cercano di sopravvivere come possono e fin dove possono.
Lo stile dell’autrice, asciutto e indovinato, riesce a descrivere mondi interiori drammatici con il massimo distacco, riuscendo così anche a rendere l’idea di come le protagoniste siano effettivamente considerate da chi mai le vorrebbe come amiche: alla stregua di immagini di un film.
L’alcolismo, l’anoressia, vari disturbi della personalità anche di natura sessuale: aiutati, che Dio ti aiuta, ecco la cura che, senza nasconderci dietro un dito, molti di noi darebbero.
Un’opera che affronta il problema del genere in maniera efficace e originale, trasformando storie e personaggi – purtroppo – banalizzati dal nostro egocentrismo congenito, in capisaldi di un disagio che dovrebbe, invece, farci rivedere il concetto di amicizia.