Nessuno di noi, sembrerà banale, ma è così, è troppo preparato per ad affrontare il grande passo e spesso è portato a pensare che probabilmente non gli toccherà mai, ma ecco che arriva lo spoiler di Francesco Vico nella sua ultima silloge intitolata, appunto SPOILER: ALLA FINE MUOIONO TUTTI [Librido, 58 pagine].
Al di là della battuta che spesso scappa quando si parla di un nuovo film o di un libro appena uscito, alla fine muoiono tutti, va bene, ma nel frattempo? L’unica illusoria speranza è cercare di ingannare il tempo, magari con qualcosa che alla fine potrebbe anche risultare utile a quelli che sono in fila prima di noi. In fila per il trapasso intendo.
Francesco ha raccolto una serie di poesie, sì le voglio considerare così anche se lui nell’introduzione cerca di sminuirsi: “… ammesso che siano poesie, non mi piace chiamare così le robe che scrivo, le chiamo così in questa roba per una questione di chiarezza, poi prometto che smetto…”.
Poco dopo l’autore conferma che uno degli scopi di questo libro è intrattenere chi è in fila, assieme a noi, in attesa della nera signora:
“Comprando questo libretto di poesie
puoi anche tirartela un po' quando viaggi col treno
e magari provare a rimorchiare
o a farti rimorchiare
con la classica scusa del "di cosa parla?"
Ovviamente funziona soltanto se all'altra persona
interessano le poesie
e il rischio maggiore è che l'altra persona
a cui piacciono le poesie
le scriva anche
e voglia leggertene una sua lì sul treno…”
E già solo con queste premesse, il libro va comprato e letto.
Le poesie uscite dalla penna di Francesco Vico sono meditazioni sul presente, distaccate e sapide considerazioni sulle, talvolta all’apparenza modeste, imposizioni della vita. Alcune sono geniali, altre mi hanno fatto ridere fino alle lacrime per la sagacia. La seconda (che secondo me andava messa per prima) è sublime, non la svelo, dico solo che parte da un’intelligentissima considerazione circa le cautele da adottare nelle stazioni ferroviarie. E sono invidioso per non averla fatta io prima di lui, però lo scopo della poesia, e dell’arte tutta, è quello di stupire e aprire la mente. E l’autore c’è riuscito benissimo.
Il tema portante dell’opera è la fine delle cose, il dubbio che limita il pensiero, l’attrito che consuma le nostre esistenze. Tutti elementi inevitabilmente accomunati alla morte, ma non affrontati in chiave macabra, bensì con ironia intelligente e sarcasmo definitivo – oserei dire tombale, per restare in tema – ossia che non danno tregua, né permettono di prendere in esame ipotesi diverse in ordine alle forze – naturali, artificiali e umane – che a rotazione si oppongono a quel poco di vita che ci è concessa. Quasi come se tale attrito venisse trasformato in solletico e facesse ridere il poeta che non vuole darla vinta, né mostrarsi spaventato al suo arrivo, né dimostrarle che potrebbe essere invocata come salvatrice. Ovviamente la morte intesa come interruzione, come inutile opposizione alla vitalità e al pensiero.
L’umanità per andare avanti ha bisogno di attriti, di forze contrarie, di opposizioni che, pian piano consumano le esistenze.
A meno che – e ciò sembra trasparire in controluce da queste righe – per un plausibile caso matematico tutti gli esseri viventi non muoiano nello stesso istante.
Il poeta è osservatore e in questa silloge ha fissato l’attenzione su trentatre aspetti che ci limitano e ci condizionano ma che il più delle volte ignoriamo, forse nella speranza di trovare, chissà dove, qualcosa di meglio, che possa distrarre la morte. In poche parole: quale arma migliore della poesia per combattere l’ipocrisia, l’egoismo e l’egocentrismo, ricordando loro che la morte tiene tutto e tutti in scacco?