Questo racconto demenziale l'ho scritto per il contest: "La cucina che non c'è", organizzato da Mangiastorie.
La signorina Efisia abitava in un piccolo paese in provincia di Nuoro e sosteneva di avere origini cinesi da parte della trisnonna.
Pur non avendo alcun tratto orientale, nutriva una profonda, al limite dell’insano, passione per le cose cinesi.
Solo che lei in Cina non c’era mai stata, tutto quello che sapeva lo aveva appreso dalle riviste, dalla TV, dai ristoranti e dai negozi cinesi che frequentava spesso.
Aveva trasformato casa sua in una piccola Chinatown. Ovunque c’erano calligrammi, lanterne, dragoni, tavolini bassi e altri oggetti raccattati un po’ ovunque. Ovviamente erano dei falsi clamorosi e grossolani che commercianti senza scrupoli le avevano rifilato a carissimo prezzo.
Viveva facendo la badante a vecchie signore rintronate che non capivano nulla di ciò che lei predicava in ordine alla sua passione, passione che - e non riusciva a spiegarsene la ragione – peraltro allontanava tutti i suoi potenziali pretendenti.
Un bel giorno vinse una somma enorme al lotto e non ci pensò nemmeno un secondo: mollò le vecchie e si mise subito all’opera per aprire un ristorante cinese.
Non avendo mai visto quella originale da vicino, aveva dato vita a una pseudo cultura cinese che in realtà esisteva idealizzata solo nel suo mente piena di vasi ming.
Insomma, riuscì nell’intento della sua vita: aprì il “FIOL DI LOTO, listolante neocinese”. Era felicissima.
La gente iniziò ad accorrere curiosa, sebbene un po’ titubante. Un ristorante cinese, anzi “neo cinese” in quelle zone di montagna – sarda - stonava un po’.
Assunse cuochi, camerieri, inservienti, somelier e aprì. Non ci fu bisogno di troppa pubblicità, visto il soggetto, la voce si sparse in men che non si dica.
Il locale si riempì da subito, da ogni dove arrivava gente curiosa di assaggiare il suo polcheddu allosto, il suo capletto con veldule, i suoi malloleddus al sugo di pecola, i suoi lavioli di licotta e plezzemolo, la sua clema di folmaggio, i suoi formidabili dolcini saldi e tutte le altre delicatessen.
Era felicissima, il locale andava a gonfie vele, anche perché la gente ci andava più che altro per vedere la padrona, che viveva in un mondo tutto suo, un mondo neocinese. Si truccava gli occhi per farli apparire a mandorla, indossava esclusivamente abiti cinesi tradizionali, con elaboratissime pettinature, camminava a piccoli passi, spesso con un ombrellino completamente inutile, rideva squittendo mettendosi una mano davanti alla bocca o nascondendosi dietro un ventaglio in carta di riso e pronunciando sistematicamente la “L” al posto della “R” anche quando parlava in sardo, che d’altra parte era l’unica cosa “non italiana” che conosceva bene.
Accoglieva i clienti con delicatissimi inchini, uno per ogni cliente e, anche se si dimostrava contrariata, permetteva – a chi proprio non riusciva a usare le bacchette – l’uso delle posate tradizionali.
Il personale resisteva solo perché lo stipendio era buono e alla fin fine non doveva fare altro che cucinare e servire i piatti che conosceva bene da sempre, quelli della cucina tipica sarda, e che sul menù apparivano numerati, come in un vero ristorante cinese.
Aveva anche trovato un fidanzato, un pastore di Orgosolo che vestiva rigorosamente pantaloni in vellutino nero aderentissimi con taschini portapollici e che per ufficializzare l’evento le aveva regalato un maialino, vivo. Lei diceva che era un maialino nano vietnamita, destinato a trasformarsi in un drago alato, e lo portava in giro bardato con ali finte e ciuffi.
Efisia era sempre di buon umore e faceva sempre scherzi a tutti, scherzi che la facevano tanto ridere. Ma solo a lei.
Una giorno si avvicinò di soppiatto in cucina con una tromba da stadio in mano mentre il personale era già al lavoro. Entrò di scatto e lasciò andare tre lunghe, terribili, strombazzate da curva sud, che fecero vibrare tutto il vibrabile.
Panico.
Tutto il personale sobbalzò quasi fino al soffitto per lo spavento.
Un cameriere, che si era appartato vicino al grande frigo per rispondere a una chiamata urgente al cellulare, dallo spavento istintivamente aprì il frigo, ci lanciò dentro il telefonino e lo richiuse, senza capirne il motivo; un cuoco, che stava tritando aglio e prezzemolo, sobbalzò lanciando in aria la mezzaluna che stava usando, questa dopo alcuni volteggi a effetto boomerang ripiombò sul suo collo, tranciandolo di netto e andandosi a conficcare in una grossa mortadella di Bologna che il poveretto, in un ultimo disperato e inconscio tentativo di salvezza, aveva abbracciato tirandosela al posto della sua oramai ex testa, la quale a sua volta volò in un grande wok, che era già pronto per friggere le seadas.
«Non dovete chiamaLla padella, ma WOK», aveva ordinato Efisia ai dipendenti, e ci aveva messo sopra un’etichetta adesiva con scritto WOK, «e questa non è una mezzaluna, ma uno SMILE. Non vedete che è una faccina che Lide? Non dovete chiamaLla mezzaluna, ma SMILE», e ci aveva messo un’etichetta con scritto SMILE.
Ma non era finita.
Quella strage si era appena conclusa, quando Efisia, oramai impotente, ricordò la seconda parte dello scherzo. Aveva messo nel bagno di servizio il suo maialino nano vietnamita alato e aspettava che qualcuno entrasse per vederne la reazione, ma la bestiola, spaventata da tutto quel trambusto, era entrata in panico e dopo avere sfondato la porta, aveva fatto irruzione in cucina scagliandosi, grugnendo nervosamente, sulla prima persona che vide, ossia sul cameriere che poco prima parlava al cellulare.
Ci fu una lotta improba, alla fine vinse il cameriere, ma non fu facile.
Tutto successe in pochissimi istanti.
Quando l’eco delle strombazzate svanì, tutto si era compiuto.
Efisia inorridì, in sardo però.
Allertato da una telefonata anonima (ossia della signora Gavina Cornu, dallo scrivente riconosciuta sia dalla voce mascolina, sia dal numero telefonico che dimentica di oscurare ogni volta che effettua chiamate anonime), il sottoscritto Maresciallo Gianuario Puddu comandante della locale Stazione Carabinieri, unitamente ad altri militari in ausilio, si è recato nei locali del ristorante “FIOL D LOTO, ristorante neocinese”, nella di cui cucina si era verificato un efferato delitto, rilevando le seguenti circostanze:
- il cuoco, tale Bachisio Tangianu, di Tresnuraghes, appariva decapitato e al posto della di lui testa era stata messa, per motivi allo stato sconosciuti, una mortadella nella quale a sua volta era stata inserita una mezzaluna da cucina di marca SMILE.
- nel grosso frigo giaceva un telefonino cellulare che squillava continuamente, sono in atto indagini per scoprire chi stesse chiamando con tale insistenza;
- in una grossa padella stava friggendo la testa del prefato Tangianu e il sottoscritto, con sprezzo del pericolo, ha immediatamente spento la fiamma gettando lontano la bombola di gas;
- ai piedi del lavandino un cameriere, ancora non identificato, giaceva in stato confusionale abbracciato a un piccolo maiale sul quale erano state applicate piume e ali.
Una prima ricognizione ha permesso di rinvenire nella dispensa, non interessata dalla strage, numerosissimi vasetti contenenti una polverina bianca e impalpabile che verrà trasmessa ai competenti laboratori chimici al fine di determinarne composizione e quant’altro di utile per le indagini. La titolare, sorpresa sul luogo del delitto in abiti orientali e con una bomboletta da stadio in mano, affermava che tale polverina sarebbe semplice cipria mista a borotalco, messa in quei barattoli solo perché gli spazi vuoti le davano fastidio, mentre il cameriere abbracciato al maiale alato, opportunamente interrogato, farfugliava essere la polvere dell’invincibilità.
Il locale è stato sottoposto a sequestro e sono in atto le indagini per ricostruire l’accaduto.
Seguiranno rapporti dettagliati nonché quant’altro di utile per le indagini.