I suoi genitori sono separati e ciò aumenta la sua inquietudine di cui, forse, la loro separazione è stata l’origine, visto che lei è ne è stata una muta, quanto sgomenta e diretta, testimone.
Poi ci sono l’amicizia, l’amore e il sesso e Sveva è bravissima nel “mandare in confusione le persone circa il suo genere di appartenenza. Molto spesso era fastidioso, mica per il fatto in sé, ma per il giudizio sotteso allo scandalo di non essere una donna vera, una femmina come si deve, di avere insomma una tara da qualche parte. Ma non era sempre uno svantaggio, anzi.”.
Ma è proprio nel trinomio amicizia, amore e sesso che Sveva, la protagonista di E se ti amo, a te cosa importa, di Michela Poser [Gli elefanti, 2018] cerca di trovare una sua dimensione di vita.
La protagonista è omosessuale e spesso si va a impantanare in storie emozionati e trasgressive, certo, mozzafiato, certo, e forse lì per lì anche molto appaganti, ma senza esito. Un po’ come tutti, etero e non, d’altro canto.
“Nella mia testa sono già successe una marea di cose. Nella mia fantasia tu hai lasciato la tua vecchia vita per amarmi, e abbiamo già fatto tutto quello che si poteva fare compresi il tradimento, le menzogne, i sotterfugi, le angosce, verso quelli che fin qui ti hanno accompagnato.”
Capace di innamorarsi tre volte della stessa persona nell’arco di una serata, è però fondamentalmente insoddisfatta, insofferente e refrattaria alle dinamiche di facciata oramai consolidate in questa società di fatto velenosa; è anche sempre afflitta da una sorta di spleen “laico” che la porta, periodicamente, nel suo girovagare nello spazio e nel tempo, ad andare a trovare i suoi genitori. Grazie a questi ultimi, e in particolare a sua madre, riuscirà a trovare un po’ di pace, al rientro da un viaggio all’estero iniziato male e finito peggio, durante il quale è andata a cozzare contro una serie di delusioni una più cocente dell’altra.
“Sveva vorrebbe … dimenticare con l’incoscienza del riposo quella giornata stancante, ma prevale il senso dell’educazione, quello atavico che le hanno insufflato dentro da piccola, quello per cui non si inizia a mangiare se non sono tutti a tavola, quello per cui si cede sempre il passo alle persone più anziane, quello per cui non si appoggiano i gomiti sul tavolo, si mangia e si beve tutto quello che c’è nel piatto e nel bicchiere, a casa propria, ma se ne lascia sempre un boccone e un goccio a casa degli altri, quello per cui si chiede sempre permesso e si dice sempre grazie.”
Tutti questi insegnamenti di buona facciata – anche se andrebbero elaborati e metabolizzati con l‘età – mal si conciliano con lo stile di vita adottato dai suoi genitori, evidentemente alla ricerca quanto lei di una dimensione il più possibile consapevole e serena.
Una scrittura attenta, coraggiosa, ardita, matura, mai volgare, mai fuori luogo, mai banale, “sporca” al punto giusto, che offre non pochi spunti di meditazione e in cui l’orientamento sessuale della protagonista costituisce un valore aggiunto, unita a un’efficace narrazione su più piani soggettivi, sociologici e temporali.
Il presente non va mai d’accordo col passato e sul futuro non si possono mettere ipoteche, ecco la soluzione, forse parziale?, del dilemma. Quindi, in conclusione, la formula “E se ti amo a te cosa importa?” è il grimaldello che può funzionare nell’affrontare la vita, soprattutto quando si è vittime dell propria sensibilità. Anche tra genitori e figli. Il più possibile lontano dall’appiattimento e della banalità.
Tutto sta nel valore e che si vuol dare alla parola “importa” e alla consapevolezza che si ha di sé.