Non ce la faccio a non scriverlo: le oltre centocinquanta pagine di "L'estate senza uomini" di Siri Hustvedt (tradotto da Gioia Guerzoni, edito da Einaudi) sono buone per quando peli le patate e non hai sotto mano del giornale per raccogliere le bucce.
È una specie cassetto sgangherato e disordinato che - con la scusa del "diario" e della "follia" (con la follia non sbagli mai, fa fine e non impegna) - contiene di tutto: citazioni lanciate a vanvera accoppiate a banalità raggelanti, condite variamente in periodi farraginosi - quando non incomprensibili -, e lunghissime elucubrazioni del filone "cavoli a merenda"/"sesso delle pietre".
Un libro che poteva essere risolto in una sola frase, vabbe' libro, diciamo un insieme di pezzi di carta molto ben rilegati con lettere stampate. Una lunghissima serie di calci e schiaffi alla letteratura per dimostrare che lei - la protagonista eh, non l'autrice, casualmente moglie di P. Auster - è una intellettuale - oltretutto poetessa - taumaturga, una che dopo anni di meditazione sull'ermeneutica di non so cosa ha raggiunto sia la convinzione che il tempo passato non ritorna, sia che donne e uomini sono forse anche un po' diversi, ma su cui però pesano tutti i mali del mondo.
O forse è solo questione di editing e di traduzione?
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