Tra tutti coloro che commenteranno sui cinque blog e sull’evento creato ad hoc dalla casa editrice (QUI) verranno estratte a sorte tre copie in ebook e una cartacea del romanzo.
D'argine al male - dove i topi non muoiono Nell'estremo lembo della provincia ferrarese, dove il Po incontra il mare, Giovanni e Iolanda, fratelli e nemici, devono patteggiare per sopravvivere. La loro casa è nascosta nella golena accanto al cimitero. Il Po e l'Adriatico scandiscono ore e stagioni come le campane a morto segnano i giorni dei protagonisti. Acquistabile cliccando QUI Autore: Gaia Conventi Formato: 14,8 x 21 Pagine versione cartacea: 200 Pagine ebook: 251 ISBN 9788899964559 Prima edizione: 2017 |
Pubblicato da Le Mezzelane Casa Editrice - Collana ossessioni: http://lemezzelane.altervista.org/
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Ohhh, eccoci di nuovo con la cara siora Conventi. Adesso faccio un po’ il ficcanaso. Per la precisione vorrei farlo sul suo ultimo libro D’argine al male. Dove i topi non muoiono, appena uscito per i tipi della casa editrice Le Mezzelane, che io ho recensito qui.
1.Buongiorno, gentile siora Conventi. vado subito al sodo. Anzitutto, vorrei sapere una cosa: il titolo. Perché questa scelta, il lettore cosa può aspettarsi?
D'argine al male va cercato all'interno del testo, nel senso che all'improvviso compare quella roba lì scritta così e uno dice “Ah, ecco!”. Ma ovviamente uno per dire “Ah, ecco!” deve cuccarsi il libro, è una sorta di interrogazione a sorpresa. E poi c'è quel Dove i topi non muoiono che serve a mettere subito in allarme chi soffre di musofobia. Trattasi di paura dei topi e non del terrore dei brutti musi, anche se – mi scuseranno gli animalisti più convinti – i topi non sono poi così carini.
A questo punto il lettore deve aspettarsi un gotico rurale, un horror fluviale, un noir casalingo, la morte in ciabatte e la follia che gioca a tombola coi sani. Insomma, l'orrore quotidiano.
2. Continuiamo con l’incipit:
“Il piede rimaneva immobile, chiedendosi perché gli fosse stata levata la vita. L’aveva capito al primo tonfo: da quel momento dalla caviglia, suo naturale approdo al resto del corpo, il sangue sarebbe fluito. Lui non poteva opporsi, mentre l’ombra del ceppo cadeva sulle unghie laccate, quasi volesse assorbire l’ultimo calore del piede morente. In fondo un piede è soltanto un punto d’appoggio, due ci permettono la posizione eretta, un piede solo, mozzato con l’accetta, diventa un orrido orpello. Sangue e taglio slabbrato, forse segarlo sarebbe stata un’idea migliore.”
Qui s’inizia col botto. Piede? Staccato?
Detesto le lunghe introduzioni, non sono tipa che cincischia: si va al sodo, subito!
E dunque ecco il protagonista che non ti aspetti, un piede mozzato. Qui mi tocca ammettere che l'idea non è mia, nel senso che la scena del piede l'ho sognata. Ho poi passato la mattina a chiedermi chi, cosa e perché; in un paio di giorni l'ossatura – del libro e non del piede – ha preso vita. Sono andata a ritroso, un po' come accade nel libro: di chi è il piede, perché fa quella brutta fine? Il resto, be', mi pareva dare un senso all'incipit. Da lì a scrivere un libro il passo è breve, occorre solo un piede mozzato e del tempo da investirci.
3. Però, un attimo. Qui corre l‘obbligo della domanda che in altri contesti può apparire banale e sbrigativa. In altri contesti, ma non qui, visto l’incipit: come mai l’idea di questo libro?
Volevo fare un omaggio alla mia terra, volevo ambientarci qualcosa di mio, qualcosa di completamente diverso da quanto avevo già scritto. Il paese di Goro fa una breve apparizione anche nel mio romanzo comico Giallo di zucca ma non gli avevo ancora riservato un intero romanzo. Così, quando ho sognato quel piede e quando la vicenda ha cominciato ad avere un senso – abbastanza da volerla scrivere, intendo –, mi è sembrato fosse arrivato il momento giusto.
E poi sì, lo ammetto, volevo cimentarmi con una storia che non facesse ridere. È stata una sfida che credo d'aver degnamente onorato.
4. Chi sono i protagonisti, che io, davvero, dopo avere letto il romanzo, non vorrei nemmeno come corregionali (spero di non scatenare accuse di razzismo)?
Partiamo dal protagonista che salta meno agli occhi ma che sta in tutte le pagine, sornione e serpeggiante. Il Po. Goro ci vive – e ci muore – accanto, per noi del paese il Grande Fiume è padre padrone e madre consolatrice. E poi ovviamente abbiamo il piede di Francesca – piede che abbiamo incontrato nell'incipit – e la sua padroncina semiviva, semimorta e semibambola. Francesca fa da innesco alla bomba, l'ordigno che fa tic tac tra Iolanda e Giovanni, ospiti e reclusi della casa accanto al cimitero. Ecco, parlando di Iolanda e Giovanni si può tranquillamente spendere la locuzione “fratelli coltelli”: simbionti, speculari, Iolanda e Giovanni sono due poveretti, vittime e carnefici. Sono l'antinormalità che diventa quotidiano, l'orrore familiare che sa di chiuso, alcol e veleno per topi.
Ci sono anche personaggi minori, certo, ma ho fatto in modo di usare il minimo indispensabile: scrivere creandosi volutamente dei paletti aiuta a inventare qualcosa di nuovo, di diverso. Nessun passaggio segreto, niente stratagemmi per rendere più facile la soluzione dell'inghippo. Qui i protagonisti e l'autore – me medesima – fanno con quel poco che hanno a disposizione, perché questo insegna il posto da cui vengo, paese in cui ho ambientato il romanzo e che, ahimè, è stato portato alla ribalta dai media in maniera decisamente distorta. Forse chi ha cianciato dando aria all'ugola dovrebbe leggersi D'argine al male, quella è la zona che secondo alcuni dovrebbe accogliere immigrati. Una zona in cui non c'è nulla se non lo spirito di sopravvivenza di chi ci abita. E ne approfitto per chiarire per quale motivo non ho contattato i giornali locali per far sapere dell'uscita del mio libro: si tratta di coerenza. Se i quotidiani hanno trattato i miei compaesani come sei mostri, non intendo avvalermi della carta stampata per promuovere un romanzo ambientato proprio a Goro.
5. A pagina 27 leggiamo: «Portala di sopra e poi levati di torno, per oggi non voglio più vedere la tua faccia. E prega che al cimitero nessuno ti abbia vista, perché dovrei far sparire anche te».
Ecco, mi pareva strano per una gentile scrittrice che ha ammesso «La vista di un mazzo di fiori mi fa andare subito alla ricerca del cadavere» (inutile mentire, è tutti registrato qui) che non ci fosse almeno un luogo di pace (vabbe’, pace…) eterna. Cosa c’entra qui il cimitero?
Sono una grande fan dell'arte cimiteriale – che fotografo sempre volentieri – e ritengo i cimiteri un semplice preludio a ferie particolarmente lunghe. La mia prozia ha sempre sostenuto che è dei vivi che occorre avere paura, dunque per me i cimiteri sono davvero luoghi di pace, di serenità. Ma ovviamente – scrivendo si diventa dei volponi, ammettiamolo – so che per molti i cimiteri sono luoghi misteriosi, una sorta di porta girevole tra due mondi. Ecco, a me occorreva quell'ingresso per spiegare l'attaccamento dei miei protagonisti al nero che sfina.
6. Poi c’è l’alcol. A pagina 63, questa panacea (da piccoli guariva tutto) fa il suo primo ingresso: “Da bambina aveva visto qualcuno dare fuoco a quelle formiche, una piccola mano aveva spruzzato dell’alcol sul pavimento e poi ci aveva buttato sopra un cerino”.
Questo libro emana terrore all’odore di alcol. Come mai la scelta di questo pericolosissimo disinfettante?
Sono una che pulisce casa con alcol e aceto, mi direi una “casalinga basic”. Ma l'alcol mi fa da sempre pensare alla carne cruda, forse per via di quell'olezzo dolciastro da camera mortuaria. E qui mi occorreva un leitmotiv, qualcosa che si riproponesse come i peperoni. Essendo miope fin dallo scorso millennio, sono anni che vado a naso: e il naso ha una sua memoria. Diciamo che in questo libro ho fatto da cavia, ho sperimentato le cose per prima e poi ho proposto al lettore le conclusioni a cui sono arrivata. Ammetto che non è stata una cosa piacevole.
7. A pagina 83 si scopre che nella deliziosa casetta in cui abitano i protagonisti, ogni tanto fa una capatina anche l’assistente sociale.
«Sono la dottoressa Turati, ancora non ci conosciamo», fu costretta a dire lei. … «Sostituisco l’assistente sociale che la segue di solito. Si ricorda di lei, vero?» e chiuse la portiera.
Cavolo quando arrivano loro la situazione è quasi disperata. Che succede?
Io spero che la Turati a cui mi sono ispirata non legga il libro. Detto questo, la signorina Turati – quella del libro, per carità – interviene per vedere se Giovanni sta bene. Perché sì, è il caso di dirlo, Giovanni non sta affatto bene. Giovanni ha alle spalle una storia di ricoveri, anche al famoso – famoso per i suoi fantasmi – ospedale psichiatrico infantile di Aguscello. A fare delle ricerche online salta fuori di tutto, io ci ho aggiunto il resto. E dunque Giovanni è matto il giusto, sua sorella Iolanda non è da meno e la signorina Turati si sta ficcando in un guaio.
8. A pagina 108, l’assistente sociale parla ancora: «Vedo che lei fa la spesa abitualmente», disse indicando la verdura fresca in uno dei cassetti della parte inferiore del frigo. «Una carota, un sedano… Ha per caso della cioccolata da qualche parte?» glielo chiese con naturalezza, spiazzandolo. … Perché dovrei avere della cioccolata? Si chiese Giovanni. … Strabuzzò gli occhi e si limitò a dire sottovoce che lui non mangiava cioccolata.
«Certo, certo, ha ragione. Non è un cibo sano, vero?» [rispose l’assistente sociale, n.d.r.] e di nuovo Giovanni non seppe cosa rispondere.
Quindi, dalle attività svolte, si vede che questo assistente sociale è convinto di svolgere l’incarico che gli è stato affidato con pragmatica astuzia. Ecco, credo che uno dei perni di tutta la vicenda stia proprio nella sua figura. O sbaglio? Questa figura incarna il mondo esterno e la solidarietà, anche minima, che dovrebbe animare l’umanità verso il prossimo. Siccome i protagonisti abitano in “casupole tutte uguali, a distanza ben precisa le une dalle altre” (pagina 103), cosa dobbiamo pensare della solidarietà verso le persone e le cose vicine? Ché verso quelle lontane siamo tutti bravi a versar laGrime di dolore e a lanciare strali dalla tastiera.
L'umanità, il prossimo, la solidarietà... ma io volevo scrivere un thriller e quelle tre faccende lì mi sarebbero state d'impiccio. Come ben sai, sono di quei giallisti che sostengono sia ora di tornare a scrivere letteratura di genere senza l'intenzione di denunciare la fame nel mondo e altre piaghe sociali. Che in un libro, in un modo o nell'altro, entrano sempre. Ma nei miei romanzi sono semplicemente tra i perni che fanno girare la trama. Mi ritengo un artigiano del giallo, negli anni ho imparato a distinguere cosa può spiegare una certo mistero e cosa, invece, non risulta credibile. E per raccontare il mio horror di provincia mi occorreva esattamente questo: un posto sperduto, un conflitto nato e cresciuto coi personaggi, un fattore destabilizzante che facesse traboccare il vaso di Pandora.
A questo punto arriva la signorina Turati, l'elemento esterno. E lei quando arriva ha sospetti ma non certezze, un po' come succede al lettore. Entrambi sanno che qualcosa non va per il verso giusto ma ancora non hanno capito quanto: quanto il male sia profondo, quando l'orrore abbia scavato nella vita dei protagonisti e quanto l'amore possa trasformarsi nell'odio più abbietto.
9. La faccio breve. Già da pagina 11 s’intuiscono le idee radicali della mamma dei protagonisti.
“Giovanni da piccolo aveva i suoi giocattoli, ma lei non poteva toccarli. Sua madre le nascondeva i pochi balocchi che Giovanni si costruiva da solo. La fionda, la ricordava ancora, era finita sepolta sotto la siepe. Una buca poco profonda, eppure una manciata di terra sanciva un confine: lei doveva giocare con le bambole che papà le portava e che mamma gli chiedeva con insistenza. A Giovanni non volevano così bene, non gli regalavano mai niente, ecco perché Giovanni ora stava rintanato in casa attendendo che sua sorella facesse quanto avrebbe dovuto fare lui.”
Ora, visto anche il parterre e il dehors (je parle français comm se nient al fuss), ma quanti danni possono creare i genitori sulla psiche dei figli? Più o meno coscientemente?
Essere genitori è una grande responsabilità, forse è per questo che ho fatto in modo di scansarla.
Certamente sono tempi complicati per chi cerca di far crescere sana e contenta la propria prole, il mio timore è che qualche genitore non si sia ancora correttamente ambientato nel 2017 e quindi non abbia armi affilate e trucchi testati da tramandare ai pargoli. Siamo forse in presenza di genitori che ancora non hanno capito e digerito il nuovo millennio, e dunque impreparati a tirare su i propri figli. Ma diamogli tempo. Certo faranno danni, e certo i figli ne pagheranno le conseguenze, ma dobbiamo contare sullo spirito d'adattamento che ci ha portati fuori dalle caverne. L'abbiamo ancora, è sempre lì, occorre saperlo coltivare.
Bene, grazie per il tempo dedicato. Non so, gentile autrice, se si sono notate due cose: anzitutto che ho saltabeccato da una pagina all’altra senza un ordine numerico e, soprattutto, che nell’intervista non ho usato né il tu, né il lei, né il voi ché, parliamoci chiaro, al centro di tutto c’è il libro. O sbaglio? O come deve essere considerato il binomio autore-libro? Questa era la decima e ultima domanda.
Una volta stampato, il libro è soltanto un libro. Sarà sempre un pochino del suo autore perché così dice la copertina, ma diventa soprattutto il libro scelto dal lettore. Il lettore decide di dedicargli il proprio tempo, una delle più grandi dimostrazioni di fiducia tra sconosciuti. A quel punto l'autore dovrebbe farsi da parte e lasciare che il romanzo faccia ciò per cui è stato ideato. Nel mio caso... spaventare i lettori.
Ciao bel.