Il primo risiedeva nel timore che essendo l’autrice mia amica – e socia, e complice, di pericolose scorribande nei bassifondi dell’editoria, nonché firmataria della prefazione al mio romanzo – i soliti noti avrebbero potuto bollare le mie parole come leccaculsimo; il secondo motivo era dovuto agli ottimi rapporti che intrattengo con la casa editrice che ha pubblicato il libro di cui sto per dire la mia opinione – Le Mezzelane – ragione per la quale i soliti dalla piccionaia avrebbero – sempre secondo i miei timori – iniziato a scagazzare.
Fatta questa dotta premessa e considerato che alla fin fine a me piace parlare soprattutto di libri belli, e di tutto il resto me ne impipo bellamente, ho deciso di scrivere due righe su “D’argine al male – Dove i topi non muoiono” [Le Mezzelane, collana Ossessioni, 2017], l’ultimo, ottimo, disturbante, libro di Gaia Conventi.
Disturbante, sì, proprio come dev’essere un libro per piacermi. Disturba perché narra, in punta di penna, una storia allucinante che potrebbe svolgersi nella villetta accanto alla nostra. Ma è anche una storia che stordisce il lettore per l’odore che emana: un misto di terrore e di alcol denaturato. E quando un autore riesce a far percepire al lettore gli odori della storia ha fatto centro.
Gli ingredienti sono pochi, essenziali e micidiali: una casetta anonima non lontano dal cimitero, abitata da una strana coppia, un fratello e una sorella, un ospite involontario dei due fratelli e infine l’assistente sociale, che spesso va a fare visita a chi abita nella casetta, nella quale, al suo arrivo, c’è sempre un odore di alcol denaturato, ché là dentro le pulizie si fanno, eccome. Altrimenti l’assistente sociale potrebbe rimanerne scontenta. Mica per altro, ma avrebbe dovuto mettere in atto altri meccanismi e lei è una tipa piuttosto pragmatica.
Tutto si svolge nel raggelante (dis)equilibrio dei disturbi mentali che il lettore intuisce affliggere chi abita nella villetta fin dalle primissime pagine. Un perfetto gioco di specchi che all’inizio disorienta e che man mano che si sfogliano le pagine ipnotizza come il canto di una sirena; una serie di solitudini talmente forti da corrodere lo spazio-tempo e creare un mondo allucinante, in cui la consapevolezza assume valenze inedite, come una sorta di umanizzazione del virtuale.
Perché l’umanità ha subito simili modificazioni, là dentro? La risposta è semplicissima: perché siamo egoisti. Ci interessiamo del vicino – inteso nel senso più ampio possibile – solo in pochi e ben precisi casi: per soldi, se siamo proprio amici amici o per ficcanasare e andare poi a festeggiare sui Social. Non nascondiamoci dietro un dito, siamo molto più attratti da ciò che è lontano da noi. Due paroline di indignazione, due laGrimucce, van bene su tutto, fan fine, non impegnano e tengono viva la conversazione. Ma quando il morto è lì in casa da due mesi, oppure qualcuno uccide la moglie, tutti concordiamo: salutava sempre, buongiorno e buonasera, era una persona molto riservata. Poi ci rimettiamo le fette di prosciutto sugli occhi e sulle orecchie, mentre là fuori qualcuno chiede aiuto per non morire nella follia. Gli assistenti sociali fanno quello che possono, l’autrice ce lo dimostra in maniera incontrovertibile, e per assistenti sociali si deve intendere la collettività.
Una follia e una solitudine, quella che viene descritta dalla Conventi (ragazzi, io dopo avere questo libro, la temo vieppiù) che si autoalimentano nell'indifferenza voluta e inducono una sorta di rimedio curativo, o meglio di sopravvivenza, basato sul doppio-imperfetto: due fratelli, due piedi, due asciugamani, due abitazioni – una per i vivi, una per i morti – due tipi di giocattoli. L'orrore che più si specchia, più si perfeziona e si mimetizza. Due tipi di topi, nessuno dei quali muore. Addirittura alcuni si adattano agli ambienti inquinati, assumendo sembianze completamente diverse dai loro simili rimasti in campagna, così graziosi. Ma son sempre topi.
E qualsiasi elemento di quel doppio si guardi, l’orrore arriva sorridendo, subdolo, ossia troppo tardi per salvarsi.