Questo lo avevo scritto sul vecchio blog alle ore 01:24 del 19/01/2007
La trattoria aveva un aspetto singolarmente accogliente, forse anche perché il modernariato e gli oggetti vecchi hanno sempre attirato la mia attenzione. Gli arredi erano semplici e promiscui, come se fossero stati prelevati da qualche vecchia abitazione e sistemati là dentro in via provvisoria. Ogni suppellettile aveva una storia propria; ogni tovaglia era diversa dalle altre; le posate, le oliere e le saliere erano tutte perfettamente scompagnate, provenienti da chissà quanti e quali altri servizi, progressivamente spareggiati, per non parlare poi dei piatti e dei bicchieri.
Da “orfanotrofio” come avrebbe detto mia nonna.
Ma nonostante ciò l’ambiente, accuratamente pulito, ispirava una sensazione di calda intimità, di tranquillità, di serenità e di sobrio ordine.
A quell'ora c'eravamo solo noi, unici clienti. Aspettavamo che venisse qualcuno per le ordinazioni. Da dentro potevamo osservare attraverso i vetri a quadretti appannati della porta di ingresso la gente che passeggiava fuori, in quella gelida serata d’inverno, con le gote rosse rosse, imbacuccata in sciarpe, berretti, guanti e cappottoni.
La cameriera, sulla cinquantina, era svelta e rotondetta ed aveva i capelli rossicci raccolti sulla testa con una improbabile molletta a forma di margherita. L’impressione era che quella donna, ogni qualvolta riceveva una comanda, scappasse in cucina per preparare seduta stante ciò che veniva ordinato.
Ad un tavolino, in un angolo, vicino all’ingresso, era seduto un signore di mezza età, annoiatissimo, che di volta in volta accompagnava, sempre con mesta sufficienza, ai tavoli i clienti che arrivavano e che riceveva i pagamenti di quelli che se ne andavano, borbottando monogrammi incomprensibili.
Nella saletta attigua a quella in cui ci trovavamo, e arredata nello stesso stile, c’erano due ragazzi ed una ragazza che ciondolavano attorno ad un juke-box.
Forse mi sbagliavo ma mi era sembrato che quella ragazza, che poteva avere al massimo non più di 16-17 anni, prima si stesse sbaciucchiando con uno dei ragazzi e poi subito dopo con l’altro. Era un po' scialba, ma aveva in se qualcosa di magnetico.
Posto tutt’altro che elegante, ma con un fascino terribile. Giacomo sapeva districarsi perfettamente nei bassifondi di Genova, nell’angiporto, nei carruggi; tutte zone in bianco e nero, per le quali all’epoca si poteva girare tranquillamente, purché ci si facesse bellamente gli affaracci propri, senza timore di incappare in qualche banda di extracomunitari.
Lui, che ostentava sempre un certo spleen, era (ed è) un ottimo amico di poche parole e quella sera avevamo deciso di spassarcela con quante più donzelle avremmo potuto. Avremmo bighellonato per tutta la notte senza meta, avremmo zingarato alla ricerca di nuove strepitose amiche. Avremmo comunque fatto un salto anche all’inaugurazione di quel nuovo locale aperto da due suoi amici e poi anche in quell’altra discoteca notoriamente frequentata da signore e signorine sole ma non prezzolate. Avevamo già iniziato anche la via crucis dei bar più malfamati da Sampierdarena a Marassi e ci eravamo fermati li, in quella trattoria che si trovava sul nostro itinerario, per cenare. Lui conosceva sempre qualcuno ovunque andasse, aveva amici dappertutto.
Il mio sguardo andò di nuovo sui tre ragazzi nella stanzetta accanto, stavano fumando, bevendo birra e ridendo come matti mentre cercavano una canzone sul juke-box.
Che disinibizione, che disinvoltura, quella se li spassava entrambi, così, con naturalezza, come se “nient’al fuss”. Mah!
"Allora?”. Il richiamo della cameriera mi riportò alla realtà. Mi stava guardando un po’ scazzata perché aveva fretta di prendere le nostre ordinazioni. Chissà da quanto tempo era li che aspettava che la considerassi.
“Non so, cosa avete?”
“Di nuovo?”, disse seccata, con quella cadenza tipica genovese.
Ah, ok, aveva già fatto l’elenco a Giacomo ma io mi ero distratto e me l’ero perso. Boh, chissà cosa c’era da mangiare, visto che non c’era nessun menù sui tavolini.
“Porta un po’ quello che ti pare” intervenne Giacomo, “facci assaggiare un po’ di tutto”.
“Carne o pesce”?
“Pesce, grazie”, rispondemmo quasi in coro.
Si allontanò per entrare in cucina a preparare quelle che, secondo il mio amico, erano leccornie introvabili.
“Sai che Luciana una volta ha cacciato fuori due tipi che non si decidevano sulle ordinazioni? Vuole solo gente sbrigativa”.
Ridacchiai. Che gente strana al mondo.
La ragazza della stanzetta accanto aveva trovato la canzone, inserì la moneta e premette i grossi tasti del juke-box. La musica dopo pochi istanti rimbombò per tutto il locale attraverso due enormi casse appese non si sa come su due angoli della sala. I tre si misero a ballare. Li osservavo, sembravano essere in un altro mondo, come se io riuscissi a vederli attraverso un varco spazio-tempo ma loro non si stessero accorgendo di noi, della gente che stava cenando nella trattoria “da Luigin”, a Di Negro, zona non propriamente raffinata di Genova.
Erano felici, glielo si leggeva negli occhi.
“Quella è la nipote di Luciana, se si accorge che la guardi in quel modo ti fa una scenata qui davanti a tutti e ti caccia fuori”, mi informò Giacomo.
“Capirai, la gran bellezza. Oltretutto si sta sbaciucchiando con entrambi, un po’ con l'uno un po’ con l’altro. Ma sua zia non se ne accorge?”
“Luciana è sua nonna e lei cerca di non farsi vedere”.
I ragazzi e la ragazza iniziarno a ballare sulle note del tormentone di quello scorcio di inverno: Electrica Salsa” degli Off, gruppo di cui, dopo quella canzone, non si è più saputo nulla.
Eravamo nei primissimi mesi del 1987.
Baba babaaaaaa.
Alle prime note della canzone Luciana uscì dalla cucina e si precipitò nella saletta del juke-box.
“Ahia, mi sa che ci scappa qualche schiaffo”, disse Giacomo.
Invece si mise a ballare con i tre ragazzi, visibilmente compiaciuta, come se stesse aspettando quel momento da molto tempo.
Baba babaaaaaa…ieeeeeeee.
Spensierati, tutti e quattro ballavano scambiandosi colpi di edere, alzando le braccia, allontanandosi e poi riavvicinandosi. Battevano le mani, suonavano trombe invisibili, muovevano le labbra, per quello che potevano, sulle parole della canzone. Si mandavano bacini su: “ciubidubappà ciubidubappa…” a volte facevano finta di galoppare su un cavallo immaginario. Si prendevano a braccetto e roteavano. Erano chiaramente spensierati e sereni. Beati loro.
Che spettacolo. Che canzone demenziale. Che gente strana.
Non posso negarlo, se ci ripenso un po' mi commuovo.
Nonna e nipote che ballavano assieme, impippandosene caramente di quel divario generazionale che importanti figure si sforzavano in tutti i modi di definire. La soluzione forse era da cercare proprio in quella anonima e sgangherata trattoria, priva di insegna. Ma gli eminenti studiosi ben si guardavano dall'andare a cercare là. Non volevano di certo correre rischio di rimanere senza lavoro e di non vedere più i lauti compensi derivanti dalle loro soporifere apparizioni in TV, durante le quali si confrontavano con tuttologi ed opinionisti improvvisati. Come oggi, per altro.
Mi voltai verso l’annoiato signore addetto al ricevimento ed al congedo dei clienti, e vidi che stava sonnecchiando. La musica manco lo sfiorava.
Bella canzone, oramai la si sentiva dappertutto. Orecchiabile e coinvolgente.
Terminato di ballare Luciana si diresse velocemente in cucina.
“Adesso vi porto da mangiare eh!” e mi fece l’occhiolino.
“Quando deve farsi perdonare qualcosa fa la gentile” chiosò Giacomo. “Ma il locale è bello proprio per questo: si mangia bene e c’è gente vera”.
Infatti sembrava proprio il locale adatto nel posto adatto. L’aria di semplicità che si respirava, l’ambiente assolutamente scevro da simboli di lusso e inutili soprammobili riportavano alla vita che effettivamente si conduceva in quel quartiere, che poi era al confine con le zone veramente “clou” di Genova: Via di Prè-Via Gramsci & dintorni, spesso omaggiate da grandi autori. Una vita certamente non idilliaca, ma comunque improntata a determinate regole non scritte e profondamente diverse da quelle osservate dalle orde di extracomunitari nullafacenti che oggi infestano quei luoghi santi per Genova e per la Liguria intera. Certo, se ci sono vuol dire qualcuno ne avrà di certo permesso l’insediamento, ma non mi va di addentrarmi in questo argomento.
Che profumo. Mhh, buono. Adesso la mia attenzione si era soffermata sul profumo.
“Buongiorno eh. È da un’ora che ti assenti e guardi tutti e manco ti sei accorto del profumo buono che c’è. Cazzo quanto sei curioso e ficcanaso”.
“Ma che curioso. Scusa eh, ma ti sembra una cosa normale e naturale che, nonostante tutto quel casino della musica e dei balli, il tipo laggiù se la dorma? Io non ce la faccio a far finta di niente. Ti sembra un posto normale questo? Dove c'è gente normale?"
“Ecco appunto, in maniera più sofisticata, hai ammesso di essere curioso”.
"Ma vaffangala va”.
Arrivarono le portate.
Insalata di mare, mazzancolle gratinate, moscardini affogati, spaghetti ai frutti di mare e calamari alla griglia.
Vino della casa, rosato, dentro una caraffa pesantissima.
“Patatine o insalata?” chiese Luciana.
“Insalata, è meglio grazie”, chiedemmo entrambi.
“Ma che insalata e insalata, toh, che senno al pesce non ci senti nessun gusto”, e ci servì due piatti colmi di patatine fritte. Ma non di quelle surgelate a bastoncino, come quelle odierne prefritte. Patatine fritte vere, derivanti da patate vere; pelate, tagliate e fritte, dalla forma irregolare, come quelle della mamma e della nonna.
Mangiammo quelle prelibatezze quasi in silenzio, per non rovinarci l'orgasmo papillifero.
“Toh, questi li offre la ditta, visto che non volete nemmeno assaggiare il mio dolce”, e mise sul tavolino due caffè e due bicchierini di amaro.
Il dolce proprio non ci stava e nemmeno la frutta.
Bevemmo i caffè e assaggiammo l’amaro, che era ottimo.
“Che buono l’amaro. Ma che cosa è?” Chiesi a Giacomo.
“Chiedilo a Luciana”.
“Luciana senti”.
“Dimmi”, disse avvicinandosi.
“Che buono questo amaro, cosa è?
“ È l’amaro del centenario, ossia l’amaro di chi si fa i cazzi suoi e campa cent'anni”. E se ne rientrò in cucina.
Giacomo rideva sornione.
“Vaccagare Giacomì”.
“Lo vedi che sei troppo curioso, a volte la curiosità crea degli inconvenienti”.
Pagammo un conto ridicolmente basso, 10.000 lire a testa.
“Ma non è che si sono sbagliati”?
“No, qui i prezzi sono bassi, i titolari non sono esosi, non pretendono nulla, solo tirare a campare”.
Uscimmo fuori. Un gelo incredibile mi attanagliò. Quel freddo che anestetizza, che fa sembrare che le orecchie si siano cristallizzate ed hai paura a toccartele, paura che possano sgretolarsi.
L’orologio digitale della farmacia segnava: ore 21.35 * -4 °C.
“Giacomo, ci sono 4 gradi sotto zero”.
Giacomo non era più vicino a me. Lo cercai con lo sguardo e lo vidi che stava attentamente facendo pipi in bella vista nel cortiletto di un palazzo poco lontano, beandosi delle traiettorie paraboliche e variamente inclinate che riusciva ad imprimere, dondolandosi, al liquido in uscita.
Si era tolto un guanto, e lo reggeva con i denti, per svolgere meglio quella delicatissima operazione.
Mi guardai attorno, meno male che non c'era nessuno.
“Ma sei fuori di testa, non potevi farla dentro? Almeno appartati un po’, perché quel trionfo di giochi d'acqua è abbastanza ributtante”.
Per rispondere si tolse il guanto dalla bocca con la mano libera.
“La faccio quando mi pare, come mi pare e dove mi pare. Girati o allontanati se ti da fastidio”.
“Ecco bravo fai pure così, finché qualcuno, quando e come gli pare, non ti arresta. Comunque stai attento che questo freddo, se gli pare, visto che siamo a meno 4, ti fa congelare il pisello all’istante, attaccato alla mano.”
“Non il mio. È sardo. E i piselli sardi non si gelano facilmente. Pensa al tuo.”
“Quanto sei saggio, oltre che poco curioso ma molto sporcaccione.”
"Te lo immagini se dal gran freddo il getto si congelasse per aria e rimanesse per un po' di tempo qui una composizione astratta ghiacciata, di tipo filiforme?", disse.
"E poi io sarei quello strano perchè sono curioso eh? O artista muoviti, che c'è freddo", lo spronai.
"Baba babaaaaaaaa...iieeeeeeee". Cantava.
"La chiamerei Electrica Salsa Nocturna, sarebbe un'opera di successo mondiale."
Terminata la funzione artistico-corporale e dopo avere constatato che il gelo, sebbene intenso, non era riuscito a cristallizzare quel capolavoro, decidemmo di passare nel locale di sua cognata, un semi-pub di livello semi-postribolare che si trovava poco distante.
“Andiamo a bere qualcosa li poi andiamo al Venus. Magari sul tardi passiamo all’inaugurazione” propose Giacomo.
Acconsentii e lo seguii. Aveva 5 anni più di me e lo ammiravo, per tutta una serie di motivi, che via via dirò.
“Giacomo, quel vinello era buono. Me lo sento dappertutto, soprattutto in testa e nelle gambe. Meno male che mi ha scaldato, con 'sto freddo cane”.
“Se ti cuoci dopo 3 bicchieri di vino, allora sei proprio messo maluccio. Ma dove vuoi andare stanotte, se sei brillo mi sa che non acchiappi proprio nulla”.
“Fregatene e pensa per te, vediamo chi becca di più, se io curioso, o tu saggio e artista”.
Proprio frequentandolo scoprii la mia estrema affinità con i sardi, che poi - guarda i casi della vita -si è concretizzata nell’attuale mia radicata permanenza in terra sarda, che amo e ammiro, pur coscio di essere sempre un ospite e che pertanto non potrò mai goderne pienamente l'essenza, nonostante abbia avuto l'onore di sposare una splendida donna sarda e nonostante i grandi amici che questa terra mi ha riservato, e gli altrettanto grandi nemici.
Ma anche lui era ospite della fredda e strana Liguria, e faceva del suo meglio. E lo faceva benissimo, tra i suoi grandi amici e grandi nemici.
Giacomo mi mollo un pugno sulla spalla e iniziò a correre.
"Ajo muoviti che c'è freddo, e se mi chiami ancora Giacomì come hai fatto dentro ti mangio il cranio".
Ci avviammo correndo, avvolti nei nostri giubbotti e nelle nostre sciarpe grosse, verso il pub-tanaio della cognata. La serata, anzi la nottata, era ancora lunga.
"Electrica Salsaaaaa, oiieeeeee", cantavamo a squarciagola correndo, per vincere quel freddo pazzesco, che trasformava l'aria che usciva dalle nostre bocche in fumetti.
Però, che nostalgia.