Alludo a Ingrid e Riccione, di Pee Gee Daniel (pseudonimo), [Edizioni La Gru, 2014], un romanzo in cui le descrizioni e i passaggi sono resi con maestria e, sebbene con un linguaggio un po’, come dire, antico - anche se frutto di un’accurata ricerca - risultano affascinanti invogliando alla lettura.
Tuttavia, c’è più di un tuttavia, questo sforzo va a cozzare contro due ostacoli che progressivamente frantumano, fino a renderla inutilizzabile, l’opera. Il primo è costituito dall’epoca di ambientazione: il 1978. Ora, in una sorta di sperimentazione questo stile potrebbe anche funzionare, ma deve dar vita a un lavoro del tutto innovativo, percorso da un quid pluris inedito; il secondo è la trama e in questo caso lo sforzo lodevole dell’autore va completamente perso. Il contenuto, infine, aiuta solo nella non riuscita del romanzo che, è giusto ammetterlo, contempla alcuni passaggi di rara comicità, peraltro fine a se stessa.
Un elemento che molti autori non sembrano conoscere, o di cui si impipano bellamente, è il cosiddetto patto narrativo, ossia il contratto che si instaura in automatico, all’apertura della prima pagina di un libro, tra autore e lettore. Quest’ultimo deve sapere anzitutto se si tratta di un’opera basata su fatti reali o immaginari. Tale netta distinzione fa parte integrante e imprescindibile del patto, che si esaurisce naturalmente all’ultima pagina del libro.
Nel nostro caso, nessuna di queste clausole è stata rispettata. Si tratta della storia di Ingrid, una ragazza tedesca bellissima ma completamente cieca dalla nascita, che fa due cose talmente assurde da far chiudere il libro a metà: va da sola in treno da un paesino della Germania fino a Riccione, circa duemila chilometri, per trascorrere un lungo periodo di vacanza, e ha la passione della fotografia.
Ora, come faccia una persona cieca ad affrontare un viaggio e una vacanza del genere è difficile da capire. Sulla passione per la fotografia non c’è nemmeno da dilungarsi. L’autore ci spiega che la protagonista va sempre in giro con una macchina fotografica a tracolla e ogni qualvolta crede di trovarsi di fronte a qualcosa di interessante, ferma il primo che le capita e gli chiede di fotografare per lei. Poi, siccome ricorda con precisione data, luogo e ora degli scatti, quando il laboratorio glieli rende sviluppati, lei, dopo averli sistemati in un ordine cronologico tutto suo, chiede agli amici di spiegarglieli.
Ok, siamo d’accordo che quando manca un senso, gli altri quattro si acuiscono al limite del paranormale per sopperire alla mancanza, però qui è troppo.
Ingrid quindi, completamente cieca, va con la sua macchina fotografica di treno in treno fino a Riccione e là, dopo essersi sistemata – sempre da sola – in una pensione di lusso, un pomeriggio, mentre prende il sole sulla spiaggia indossando un costume bellissimo, conosce un ufficiale di Marina con il quale inizia una relazione. A bordo della Jaguar di lui fanno molte gite, durante le quali scattano tantissime foto, per immortalare quei momenti magici.
Quando torna a casa, Ingrid ha ancora il pensiero al suo amore lontano, che dal canto suo le ha promesso che si sarebbe fatto vivo quanto prima. Oramai parla solo di lui a chiunque le capiti a tiro. I suoi genitori, allarmati, allora pensano di convocare, per vedere se può risolvere qualcosa, una sua cugina che è al primo anno di psicologia, alla quale affidano l’incarico di “visitarla”. Per farla breve, anche se si era già capito, esaminando le foto che Ingrid si era fatta scattare durante la vacanza, si scopre che il tipo conosciuto a Riccione era un laido e sdentato lestofante e che la relazione non era altro che un escamotage adottato per biechi fini anche sessuali, oltre che economici. Inoltre, da quelle foto si capisce che la pensione dove alloggiava era una stamberga cadente, gestita da una vecchiaccia disonesta, e che i luoghi e i monumenti visitati non erano altro che squallide zone di periferia, quando non si trattava di locali privati altrui, in cui il suo bellimbusto si infilava per rubare. Il bello è che la ragazza, cieca e quindi dagli altri sensi più sviluppati, non si accorgeva di nulla, fino al punto di scambiare file di salsicce (che il suo bello stava rubando da una cantina nella quale si era introdotto usando un piede di porco) per nastri di velluto (e non si è nemmeno accorta che lui era quasi del tutto sdentato, nonostante i ripetuti amplessi avuti sulla battigia). E che dire del suo accompagnatore, che acconsentiva a farsi fotografare mentre, assieme ad altri degni compari – spacciati per alti funzionari di chissacosa – commetteva dei reati, con tanto di strumenti da scasso in bella vista.
Ma allora, in cosa consiste il deus ex machina, ossia come liquida la cugina aspirante psicologa tutta questa situazione? Come si conclude il libro?
Con una banalità del tutto inconferente pronunciata dalla cugina prima di lasciare la villa di Ingrid.
La chiave di lettura di quest’opera, a mio giudizio, non esiste, da qualsiasi punto di vista la si esamini, fatto salvo lo stile, ma che da solo serve a ben poco, e perdonatemi se per la prima volta in una recensione “spoilero”, ma credo che in buona sostanza non ci sia nulla da svelare. A meno che non si tratti di uno scherzo, allora ammetto che è riuscito bene.