Arriva nella vita il momento dei bilanci, dei confronti e delle meditazioni su ciò che è stato e su ciò che, a mo’ di contraltare, ha resistito al tempo, come il glicine della casa di cui si racconta nel romanzo La casa dal pergolato di glicine, scritto da Lucia Guida (Edizioni Nulla Die, 2013, 154 pagine).
Marina, una ragazza benestante, eredita una casa sul litorale romano; casa in cui trascorre l’estate del 1970, durante la quale prende definitiva coscienza del fatto che il suo matrimonio è fallito il giorno stesso in cui è stato celebrato: suo marito, potente e stimatissimo avvocato, la tradisce nemmeno tanto nascostamente e la usa come facciata per le occasioni ufficiali in società.
Quell’eredità, che peraltro ha introdotto nuovi problemi di “gestione” nel suo già traballante ménage famigliare, paradossalmente rappresenta per Marina il punto di partenza per una vita a metà tra il nuovo e l’ordinario: conosce Walter, un giornalista suo vicino di villetta, di cui diventerà un'amante sui generis, che gli cambierà di netto la vita.
L’esistenza di Marina, che si dipana tra Roma, la provincia Romana e l'Umbria, si arricchisce quindi di un nuovo binario, sul quale corre non tanto la sua relazione con Walter (che peraltro dura pochissimo), ma piuttosto la sua voglia di riscatto, anche se ormai compromessa; quella casa, praticamente in riva al mare, i cancelletti di accesso alle abitazioni dei due amanti clandestini e, soprattutto, il glicine, assumono il valore di caposaldo rispetto ai quali i binari della (nuova) vita di Marina si snodano. Punti fissi, complici, che sembrano voler dare ulteriore segno negativo a quell’eredità, piombata a dare una scossa alle esistenze - oramai vittime dell’apparenza e dell’opulenza - di Marina e di suo marito, Attilio.
Marina è ricca, sì, può disporre di tutti i soldi che vuole, la famiglia di suo marito, pur di evitare uno scandalo, sarebbe pronta a qualsiasi cosa, ma la vera ricchezza sono la sua forza, la sua determinazione e il suo istinto di sopravvivenza. E di ciò ne prende consapevolezza suo malgrado, spinta da quel glicine, che non si sa se definire benedetto o maledetto, viste le sorprese, di non poco conto, che pare le abbia riservato; riesce ad armonizzare, con una dolcezza e una verve squisitamente femminili, tutte le componenti da cui è stata assalita durante la permanenza in quella villetta dal pergolato di glicine che, in una sorta di maledizione, ha catalizzato tante situazioni sulle sue spalle – solo apparentemente – fragili, da non farla più tornare volentieri in quella dimora.
Passano gli anni, i binari giungono piano piano al capolinea, Attilio muore e nella mente di Marina restano impressi il glicine, il cancelletto della villetta di Walter e Walter.
Quando, oramai vicina al suo capolinea - ai giorni nostri - viene assalita dalla demenza senile, Marina, in un raro sprazzo di lucidità, chiede di essere finalmente accompagnata in quella villetta tanto detestata, vuole con ogni probabilità chiudere il cerchio, perché solo là potrà farlo, assieme al bilancio della sua vita, che ha avuto come baricentro proprio Walter; si rende però conto che ciò non è possibile, allora raccoglie un mazzolino di quel glicine della memoria - che impregna le pagine di questo romanzo -, quasi a contrastare il male che cerca di portare l’oblio nella sua mente, oramai stanca.
Il tema della resistenza e dell’organizzazione delle donne viene affrontato in maniera impeccabile in questo romanzo, in cui il gusto per la descrizione e per l’introspezione assumono valenza portante. Una narrazione mai frettolosa e un’attenzione ai particolari e alle sfumature impreziosiscono una storia solo all’apparenza banale: un tradimento e un marito assente potrebbero essere trattati con toni molto più leggeri (a maggior ragione se ambientati tra persone in), mentre invece l’autrice è riuscita a non sbilanciarsi, a non parteggiare spudoratamente per questo o quel personaggio, a non indugiare sui luoghi comuni oramai triti e ritriti sull’amore, preferendo dedicarsi all’analisi dell’inesorabilità della vita e alla valorizzazione di quei sentimenti che, spesso, banalizziamo quando sentiamo storie di tradimenti o affini; essi ci vengono direttamente sbattuti in faccia dalle, poche, pagine di diario che la protagonista sembra avere scritto e che inframezzano la narrazione, con poche e incisive righe.
Infine, e non è cosa da poco, la vicinanza del mare non ha indotto quei paragoni e quelle riflessioni banali sulle onde, sull’orizzonte e sui gabbiani che costringerebbero a chiudere il libro a pagina dieci.
E diciamolo pure, non è facile scrivere un romanzo in crescendo, come questo, in cui forse le ultime pagine vengono lette con uno strano luccichio negli occhi.