
Una serata fantastica, una recitazione coinvolgente, una brillante performance “a tu per tu” con il pubblico, di quelle che ce ne vorrebbero in questo periodo di fuffa smerciata per arte, di sedicenti quanto disinvolte soubrette e di dilettanti che, solo per il fatto di “calpestare il palcoscenico”, pensano di essere attori (quando pensano).
Lui, Michele, è un portatore insano dell’X factor che manca a molti: l’umiltà associata a una grandissima – e invidiabile – professionalità, frutto di una passione che ha incantanto, e smosso, anche un rumoroso, sempre incontentabile, cialtrone come me.
No, non fatevi ingannare dall'immagine, Alex De Large non c'entra (quasi) nulla.
Gli ho chiesto di scambiare quattro chiacchiere e lui ha accettato, nonostante alcune domande volutamente provocatorie. Ve lo presento (per quelli che ancora non lo conoscessero):
Ciao Michele, grazie per la disponibilità. Vado subito con la domanda di rito: puoi dirci nel minor numero di battute il maggior numero di cose su di te, gossip compresi?
Buongiorno! Accetto la sfida e tiro fuori la mia “carta d’identità”: Michele Vargiu, 29 anni, attore di teatro e autore. Sono nato a Sassari e mi sono diplomato al Teatro Arsenale di Milano nel 2008; mi occupo prevalentemente di teatro di narrazione e cerco di affrontare temi di interesse sociale e civile, che abbiano uno stretto legame con l’attualità. Ho avuto (e grazie al cielo ho ancora) la fortuna di portare i miei spettacoli in giro per teatri, piazze e club di tutta Italia. Ho fondato due compagnie teatrali che oltre a produrre spettacoli, si occupano di formazione e ricerca teatrale e sono alla ricerca costante di storie da raccontare, tendendo bene le orecchie ogni volta che metto il naso fuori di casa. Credo ciecamente in quello che faccio e nello specifico in un teatro vivo, che parli alla gente senza spaventarla, avvicinandola, senza ripararsi dietro paraventi fintamente intellettuali. Al momento sono al lavoro su due nuovi spettacoli e a breve riprenderò la tournée di quelli già esistenti; vivo, almeno per il momento, fra Sassari e Firenze. Amo la pizza, la musica, il vino buono, odio i saccenti, le acciughe e Maria De Filippi con tutti i suoi discepoli. Ah, e poi porto il 48 di piede. E direi, con questa, che anche per la parte “gossip” siamo a posto!
Ci dici in quale momento esatto della tua vita hai deciso che avresti fatto l’attore?
È successo quando ero ragazzino. Avrò avuto più o meno dodici anni. Sono sempre stato piuttosto estroverso, ma il mio primo rapporto concreto con il teatro è avvenuto alle scuole medie grazie a un mio professore di lettere, grande appassionato di teatro, che scriveva piccole commedie e ce le faceva mettere in scena nelle ore extrascolastiche. Una persona genuina e straordinaria. È stato in quel periodo che ho realizzato e messo a fuoco il mio bisogno di fare teatro. Il resto poi è venuto con gli anni, da quel momento non ho mai smesso. Questo è un mestiere che non si sceglie: ti prende, ti stringe e non ti molla più; sta a te coltivarlo, farlo crescere, lasciargli la libertà di occupare ogni angolo della tua vita fino a farlo diventare un’attività totalizzante e, si aprano le virgolette, “redditizia”.

Secondo il dizionario è “colui che interpreta un personaggio all’interno di uno spettacolo”. Secondo me non è più così; o meglio, la definizione andrebbe ampliata, in relazione a quale ruolo un determinato tipo di attore svolge all’interno della sua sfera sociale e a quali messaggi comunica. Io ad esempio mi ritengo un raccontastorie. Gran parte dei miei spettacoli si reggono sulla narrazione, portata avanti con mezzi scenici semplici in cui è il narratore, con le sue capacità, a tenere viva l’attenzione del pubblico e ad avere la grande responsabilità di farlo immaginare. Capacità, questa, che, grazie ai molti rincoglionimenti tecnologici odierni, stiamo perdendo. Ecco, io credo che un attore oggi debba aiutarci a capire chi siamo e cosa stiamo combinando nel mondo, attraverso le storie che racconta. Un teatro dal quale lo spettatore esce senza farsi domande, senza riflettere o senza nemmeno il cuore alleggerito da qualche sana risata è un teatro totalmente inutile e autoreferenziale, buono solo ad alimentare l’ego di certi calpestatori di palcoscenici.
Quali sono state le rappresentazioni che ti hanno dato di più o che ricordi con più “affetto”?
Una in particolare è una commedia di Dario Fo e Franca Rame, “Coppia aperta quasi spalancata”, che faccio insieme a Lisa Moras, una straordinaria attrice friulana. La portiamo in giro per l’Italia dal 2009 e a ogni replica modifichiamo, inventiamo, impariamo qualcosa. È uno dei pochissimi spettacoli in cui c’è un dialogo costante col pubblico ogni sera, in continuo ascolto reciproco. Un’esperienza professionale e umana straordinaria.
Un altro spettacolo a cui sono molto legato è “Appunti Partigiani”, un mio monologo sulla Resistenza italiana in cui racconto la seconda guerra mondiale vista dagli occhi di un ragazzo di diciotto anni, cercando di liberarla dalla retorica e dall’eccesso di ideologie. Ha debuttato nel 2011 e ogni anno riprende il suo cammino nei teatri e nelle scuole. Infine non posso non citare “Delirium Vitae – la repubblica del le faremo sapere”, una commedia sul lavoro precario scritta insieme a Giulio Federico Janni, in cui raccontavamo l’attesa di due disoccupati all’interno di una assurda agenzia per il lavoro interinale. Una sorta di “Aspettando Godot” della precarietà, in cui raccontare i tempi assurdi che stiamo vivendo. Lo abbiamo portato in tournée per oltre 50 repliche in due stagioni consecutive e capitava molto spesso che la gente al termine dello spettacolo ci raccontasse la propria storia, le proprie disavventure con il mondo del lavoro o che semplicemente venisse a ringraziarci, con un po’ di commozione sul viso. Ecco, questo è esattamente il tipo di teatro “utile” che tanto desidero fare!
Una curiosità, che verrà ovviamente usata contro di te: nella vita reale, fuori dal palcoscenico, ti capita mai di recitare?
Mi capita, sì. Chi mi conosce però mi scopre immediatamente; riesco a recitare in maniera credibile solo sul lavoro, ma nella vita sono un cane! Fingo generalmente davanti a persone o situazioni che non mi interessano; di fronte a tutti coloro che richiedono il tuo ascolto ma senza avere argomenti validi per poterlo ottenere.
Quali sono gli autori che ami di più?
Se parliamo di teatro, sicuramente al primo posto metto Harold Pinter. Seguito poi da moltissimi altri: De Filippo, Fo, Williams, solo per citarne alcuni. Senza contare i classici, come Shakespeare, Moliére, Goldoni, Pirandello, etc. E con un occhio di riguardo alla nuova drammaturgia, ad autori come Paravidino, Massini, ai lavori di Emma Dante, etc.
E gli attori? Hai dei maestri cui ti ispiri?
Assolutamente sì. Un vero maestro, per la forma di teatro di cui mi occupo, è Marco Paolini. Autore e attore fenomenale che ho avuto la fortuna di incontrare. Un altro grande narratore che stimo molto è Ascanio Celestini. Ma di maestri, a voler cercare, è pieno il mondo…
E i generi?
Non ho un genere preferito. Amo molto il monologo, che poi è principalmente il genere di spettacolo di cui mi occupo. Ma amo qualsiasi cosa, dalla più classica alla più sperimentale, a patto che racconti davvero qualcosa, al di là delle apparenze.
Quanto di te entra in osmosi con la recitazione, o meglio entri nei personaggi e poi ne esci come se niente fosse?
Quando sono sul palco so di avere un compito: arrivare da un punto A a un punto B. Andare, cioè, dall’inizio alla fine del mio racconto, della storia che sto raccontando, e farlo trascinando dietro tutti coloro che mi stanno ascoltando. Non c’è tempo né modo di pensare ad altro, in quel momento. Quindi sì, direi che l’immersione è totale e termina naturalmente quando lo spettacolo finisce. I personaggi, le emozioni che accumuli scivolano via come acqua. Più si ha la possibilità di salire sul palco a raccontare, più si impara a destreggiarsi con questa pratica, fin quando “vestirsi” e “spogliarsi” di un personaggio non diventa un esercizio semplice e collaudato.
Non hai mai pensato che la recitazione è una forma controllata di schizofrenia?
Ognuno recita per dei validi motivi. Tutti, attori e non. Gassman diceva: “si recita per mentire, per smentirsi, per essere diversi da quello che si è. Si recitano parti di eroi perché si è dei vigliacchi, si recita perché si è bugiardi dalla nascita e soprattutto si recita perché si diventerebbe pazzi se non recitassimo”. Non posso che essere d’accordo e aggiungo che ognuno di noi recita perché siamo delle “macchine” complesse; intrise di sensazioni, ricordi, lubrificate da sentimenti di cui noi stessi non siamo in grado di gestire l’enorme complessità. E allora ci mascheriamo, ci camuffiamo e per l’appunto, “recitiamo”. Non solo per cercare di semplificarci le cose, ma per aggiungere un pizzico di intrigo al già complicato gioco della vita.
Hai mai ricevuto elogi lusinghieri al termine di una tua rappresentazione?
Sì, e non so mai come uscirne. Mi imbarazza sempre moltissimo, non so mai cosa rispondere, vorrei trovare le parole più belle del mondo per esprimere la mia gratitudine, ma non ci riesco mai.
E stroncature?
E come potrebbero mancare! Certamente! Faccio tesoro delle critiche, purché motivate. Servono a crescere e a capire meglio il proprio lavoro per come lo vedono gli altri. Per il momento però una stroncatura “vera”, fatta senza né arte né parte ancora mi manca, ma l’aspetto con ansia.

Per il momento ne ho scritte sei: “Raccontinbilico”, rappresentata al festival “L’isola del Teatro” di Montresta nel 2011, “Appunti Partigiani”, monologo patrocinato da ANPI, sempre nel 2011, “Delirium Vitae” nel 2012, “Non conosco uomo”, commedia per cinque personaggi andata in scena a Milano con la regia di Patrizio Belloli sempre nel 2012, “Con buona pace”, monologo andato in scena in occasione del festival “Ottobre in Poesia” di Sassari sempre nel 2012, “Oggi no, domani forse, ma dopodomani sicuramente”, spettacolo tributo a Giorgio Gaber che debutterà in Friuli a novembre 2014, e “Giustizia e Libertà – della rocambolesca fuga dal confino di Carlo Rosselli ed Emilio Lussu”, che è stato presentato a Carrara nel settembre 2014 e debutterà nella primavera del 2015. Sto terminando il mio nuovo monologo sul tema del gioco d’azzardo patologico, che spero di far debuttare prima della fine del 2014. E poi, basta così.
Quanto e cosa leggi?
Leggo molta narrativa e molto teatro. Mi piace molto la drammaturgia contemporanea, genere che in Italia vende meno copie del “Corriere di Roncofritto”, e mi piacciono molto i romanzi noir, specialmente quelli firmati da Massimo Carlotto. Amo molto la narrativa americana, in particolar modo Raymond Carver.
Cosa rispondi a chi ti chiede di partecipare “gratis” a eventi culturali che potrebbero darti “visibilità e notorietà”? [domanda retorica/provocatoria mode on]
A chi mi chiede di lavorare per avere in cambio “visibilità e notorietà” rispondo a male parole. Soprattutto mi chiedo, in questa guerra fra poveri Cristi, chi diamine sia tu, committente, in grado di garantirmi “visibilità e notorietà”! Non lavoro gratis e sono dell’idea che nessuno dovrebbe farlo. Qualsiasi lavoro richiede studio, preparazione, applicazione, impegno e sudore. Uno spettacolo, così come un concerto e qualsiasi altra manifestazione artistica, richiede un periodo di studio, di prove, di ricerca e di applicazione creativa; fasi che, a volerle monetizzare, neppure un milionario potrebbe permettersi di pagare. L’esca della “notorietà” può attirare i discepoli della De Filippi, ma non un artista con una formazione seria e con le idee chiare.
E cosa pensi di chi accetta, gratis? [domanda retorica/provocatoria mode on]
Chi accetta simili condizioni è un irresponsabile che sta facendo un danno enorme non solo a se stesso, ma all’intero settore in cui lavora. E chi spera di “lavorare gratis oggi, per guadagnare poi domani” è un illuso. Se ne accorgerà presto.
Corsi di recitazione. Ne tieni? Cosa ne pensi?
Tengo a volte dei “laboratori”, cioè delle sessioni di lezione divise in moduli della durata di qualche giorno in cui insegno alcune cose specifiche: ad esempio a raccontare una storia partendo dall’osservazione di un fatto, a scriverla e a renderla viva in scena. Quello dei corsi di recitazione è un universo in espansione: negli ultimi anni è cresciuto molto l’interesse delle persone nei confronti del teatro e non posso che esserne felice: fare teatro fa bene; migliora noi stessi, ci permette di capire meglio gli altri, ottimizza esponenzialmente le nostre capacità di relazione col prossimo e la sicurezza in noi stessi. Bisogna naturalmente scegliere il corso che più ci rappresenta, che ci permetta di metterci in gioco nel modo che ci è più congeniale. Questo finché si rimane all’interno di una sfera “ludica”: per diventare attori professionisti, la strada da seguire è ben diversa, serve una formazione lunga, costante e decisamente più impegnativa.
Se tu potessi scegliere: cinema o teatro?
Assolutamente teatro, sempre e per sempre.
Cosa ci dici del metodo Stanislavskij (l’ho scritto bene, vero?) Ne esistono altri?
L’hai scritto bene, si! Pur avendo una formazione di altro tipo, non posso permettermi di parlarne male, anzi. Stanislavskij era un grandissimo studioso, un fine osservatore. Non a caso ha inventato forse il metodo più conosciuto nel mondo per chiunque voglia fare il mestiere dell’attore. Metodo che poi si è evoluto nel tempo e che viene tuttora utilizzato ad esempio dai grandi attori americani, con le dovute modifiche del caso.
Tuttavia il metodo Stanislavkij, che si basa su una quasi totale immedesimazione, non è l’unico: io ho studiato secondo il metodo Jacques Lecoq, che è stato un grandissimo attore, mimo e pedagogo francese. Lui diceva sempre: «Sulla scena non basta credere e identificarsi. Bisogna giocare». Sono d’accordo con lui.
Cosa vuoi fare “da grande”? Hai dei progetti o dei sogni nel cassetto?
Vorrei fare esattamente quello che sto facendo adesso: continuare a raccontare e scrivere storie e farlo sempre meglio, sempre di più. Vorrei avere dei figli ai quali raccontare le mie storie in anteprima e magari, un giorno, pubblicare un libro. Per ora il cassetto lo lascio socchiuso: qualcosa all’interno, col tempo, dovrà pur finirci!
Grazie Michele per la disponibilità, ci rivedremo a teatro (esatto, è una minaccia: continua così!).