In uno dei racconti salvabili (e per salvabile si intende che ha una minima attinenza col titolo), con l’espediente di alcuni amici che fanno un giro in motorino, si racconta dei monumenti e delle strade di Roma. Lo stile è appena passabile (sorvolando sulla punteggiatura a casaccio), ma nel merito sembra una visita guidata condotta in maniera asettica e per nulla coinvolgente; un altro racconto, salvabile sempre con tanta buona volontà, è scritto in romanesco, ma è di scarso, per non dire nullo, interesse. Sempre tra i (a mala pena) salvabili, c’è quello in cui l’autore va a spasso per le strade della Capitale in moto assieme a un angelo. Lasciamo perdere.
Proseguendo nella lettura, però, emergono con prepotenza altri elementi che con Roma non c’entrano una beneamata pigna. Da alcuni passaggi si capisce che si tratta per la maggior parte di racconti autobiografici, in cui si ripetono in maniera quasi ossessiva sempre gli stessi argomenti. Uno a caso: la gioventù di strada dell’autore, spacciata come tipicamente romana. Una gioventù originalissima, fatta di Carosello, di partite a pallone per la strada, di mamma - perfetta donna di casa - che va a fare la spesa e deve farsi bastare i soldi e che chiama i figli dalla finestra, di vita spartana, di mancanza di cellulari, di comitive sgangherate di amici dai nomignoli così spiritosi, che si volevano tanto bene, più che fratelli, ché una volta era tutto più bello, ci si voleva tutti più bene, di lotte tra bande e via di luoghi comuni, oramai caduti in disuso anche tra gli anziani più talebani dell’universo.
Un tema che però regna incontrastato su queste pagine è il sesso. Ovunque ci sono mignotte, pippe, preservativi usati, sbaciucchiamenti, scopate, trombate, inculate, palpeggiamenti, donne usate sessualmente, mani sporche di seme e delikatessen simili. L’apice si tocca nel racconto La puttana (pagina 51), in cui l’autore racconta di quando, bloccato nel traffico, vede casualmente una prostituta lungo la strada. Dopo averla avvicinata, si informa accuratamente sul suo tariffario e le offre in regalo il compenso più alto (quello previsto per un rapporto anale), non per intrattanersi con lei, no, ma solo per avere un suo sorriso: “Sono per te, per un tuo sorriso”, dice porgendole le banconote. Poi si allontana piangendo, orgoglioso e convinto di avere fatto una cosa buona, incurante del fatto che tutti gli automobilisti in coda stessero guardando (e anche del fatto che forse quei soldi, in famiglia, potevano servire). Meglio non scendere nei particolari di questa storia quotidiana della città eterna, si scadrebbe nelle risate più grossolane e indecorose.
Anche nel racconto storico Cesaretto (pagina 43), ovviamente, si parla di prostitute.
Una vera e propria ossessione, quella del sesso, che viene meno solo in due racconti: quello in cui l'autore si vanta dell’educazione che ha ricevuto (e anche qui, cosa c’entri con Roma non è facile da capire) e quello in cui narra di quando, da piccolo, andava in una certa trattoria a mangiare (una cosa proprio interessante). Merita un cenno anche il racconto intitolato Fumo, piombo e minestra (pagina 127) ma solo per dire che è incomprensibile.
Ah, un altra cosa tipicamente romana che l’autore faceva da ragazzino era marinare la scuola. Una cosa mai sentita altrove, davvero originale, e chi ci avrebbe mai pensato.
Un'altra cosa a dir poco fuori luogo è la lettera ai figli: sembrano le ultime volontà sul letto di morte (e ci si chiede per quale motivo ne abbia messo al corrente il mondo), invece è un lunghissimo panegirico di se stesso. Non è accettabile che un rapporto così intimo, riservato e delicato come quello filiale, venga sbandierato in maniera così grossolana. L’inopportunità di questo racconto sta, tra le altre cose, anche nell’immancabile riferimento sessuale, laddove l’autore si rammarica di non potere insegnare al figlio come fare l’amore. Stendiamo un velo pietoso anche sulla lettera alla figlia, dove, indovinate un po’, fa cenno a quando passerà la notte abbracciata a qualcuno (sarebbe bello sapere cosa c’entrano con Roma e con la romanità queste due lettere).
La ciliegina sulla torta, poi, è nel - pallosissimo - racconto dal titolo straordinariamente originale, Roma, dove si precisa che a Monte Caprino i froci ci andavano mille anni fa e ci vanno ancora oggi. L’autore chiarisce di non avere pregiudizi verso i froci servendosi della scusa più consunta del mondo, ossia precisando di avere molti amici gay. Be’, detto da uno che guarda la luna e ci vede un culo di donna (pagina 82) è una grande cosa.
È difficile scrivere su (e di) una città sacra come Roma, allora per non cadere nel già detto, nel banale, nella narrazione plastificata, sarebbe meglio evitare di dar vita a un’opera completamente inutile, quanto autoreferenziale, come questa, in cui l’autore, con l’espediente di Roma e con uno stile urticante, vuole comunicare al mondo cose di sé di cui probabilmente al mondo importa poco, visto che non hanno alcuna cifra di originalità o di inediticità (ricordano tanto i Racconti di nebbia selvatica, di Rossana Massa, stessa utilità, stessa struttura). Un’opera in salsa melensa dove purtroppo si deve anche leggere di nuvole che sembrano fiocchi di cotone.
A nulla vale, absit iniuria verbis, il fatto che l’opera sia un regalo al padre, cui sono dedicati alcuni passaggi (perché se così fosse, titolo, sottotitolo e quarta di copertina sarebbero del tutto fuori luogo). Se per caso invece l’autore pensava di voler emulare, a suo modo, che ne so Venditti, o Gabriella Ferri, o altri veri poeti della Capitale, ha sbagliato di brutto, anche se questo capolavoro è apparso accanto ad altri libri dedicati alle cose da visitare a Roma (comunque, non contento, ha fatto uscire dopo qualche tempo un’edizione arricchita di nuovi racconti e a un prezzo superiore, giusto per non lasciare nulla a metà).
Forse l'autore vuole comunicare che lui è sempliSce e che ama tanto, ma proprio tanto, la sua Roma? O forse far sapere che una volta a militare, per farlo vomitare, gli somministrarono un "ematico"?
Sento già la risposta:‘sticazzi.