Questo lo avevo scritto sul vecchio blog alle ore 15:50 del giorno 31/07/2011
Walter abitava nel palazzo di fronte a quello in cui abitavo io, un piano sopra. Io al quinto, lui al sesto. Stava all’attico e aveva un grande terrazzo, dove c’erano piante di tutti i tipi. Lo chiamavo almeno cento volte al giorno, dal mio terrazzo. Avevo 4 anni, lui 10. Era grande! Quando lo vidi per la prima volta, grassoccio, con un libro in mano, che si aggirava nella selva del terrazzo gli chiesi il nome. Cioè prima attirai la sua attenzione con richiami vari: “Ehi”, “Ehiiii” e quando si girò glielo chiesi.
“Walter”.
Da quel giorno ogni volta che lo vedevo gli facevo tutte le domande che mi passavano per la testa. Lui rispondeva con frasi secche e senza dilungarsi molto, urlando, visto che tra i due palazzi c’era la strada. Lo contattavo solo quando lo vedevo dal terrazzo e a volte al suo posto rispondeva sua mamma.
All’epoca consideravo le persone esclusivamente nell’ambito dei contesti in cui le avevo conosciute. Al di fuori di essi le ignoravo. Ad esempio vedevo Mariasilvia dalla finestra della cucina, discorrevamo del più e del meno, sempre a distanza, ma quando la incontravo per strada non la consideravo; Matteo veniva all’asilo con me, abitava sotto Oscar, ma quando lo vedevo sul terrazzo facevo finta di non vederlo e dire che all’asilo eravamo buoni amici, veniva spesso a casa mia, e io andavo da lui, per giocare; Teresa veniva all’asilo con me, abitava sotto di me, ma quando la incontravo per le scale non la salutavo. Oppure la signora Gina, che abitava accanto a noi: se la vedevo ad esempio al mercato o alla Standa guardavo altrove.
All’epoca il perché di quel comportamento mi era chiarissimo, oggi mi sfugge.
Per tornare a Walter, la sua famiglia era a dire il vero un po’ strana. Con loro vivevano due persone anziane, che poi ho saputo essere i nonni. Lui, il nonno, indossava sempre un cappello marroncino e la nonna camminava appoggiandosi a un bastone. Suo padre non l’avevo mai visto e sua mamma era sempre sorridente e vestita di colori squillanti. Chiesi notizie del padre e mi venne risposto che non c’era.
Un giorno, non sapendo cosa fare, gli chiesi cosa avrebbe mangiato per pranzo.
Rispose la madre: “Piccione in brodo, tu?”.
Restai di sasso. Piccione in brodo? Ma sono matti? L’idea che quei signori mangiavano i piccioni mi sconvolse. In un attimo mi figurai la scena: il nonno in Piazza Colombo (dove c’erano tantissimi colombi e piccioni e io credevo si chiamasse così proprio per quel motivo) che lanciava il cappello sui poveri pennuti per catturarli e la nonna che li tramortiva con il bastone, per poi tornare a casa accolti dalla mamma sorridente che aveva già apparecchiato la tavola.
Ma poi, anche ammettendo una tale crudeltà, mi chiesi come si sarebbero regolati ad esempio con il becco. Stak!, lo avrebbero staccato e mangiato? A chi sarebbe toccato? Oppure lo mettevano da parte e quando ne avevano molti li mangiavano tipo patatine, tutti assieme? E come si cucina un piccione? Si butta nella pentola vivo con tutte le piume e le zampette?
Inorridito, mi ripresi tutta la confidenza e non considerai più nessun esponente di quella famiglia degli orrori. Poi una notte feci un sogno terribile: un piccione, senza becco, che mi supplicava in lacrime di accoglierlo in casa mia perché voleva sfuggire alla mamma di Walter.
Non ho mai assaggiato un piccione e credo che mai lo farò.
Chissà che fine ha fatto Walter.