Questo lo avevo scritto sul vecchio blog alle ore 10:07 del giorno 06/09/2006
Non si deve mai dire, parlando di cose da mangiare, “che schifo”, perché molta gente, proprio in quel momento, potrebbe salvarsi dalla morte per denutrizione proprio grazie a quello che noi, stoltamente e da persone viziate, scartiamo.
Ma l’uovo alla coque, consentitemelo, per me andava oltre lo schifo, anzi vi dico che ancora oggi la penso così.
Pensavo semplicemente che fosse una cosa che non si poteva mangiare, tipo le foglie o l’acqua delle pozzanghere, e che la mamma si sbagliava – in buona fede - nel propinarmelo.
Infatti lunghe osservazioni, accurati appostamenti ed interviste mirate mi avevano fornito i dati necessari per affermare, con uno scarto veramente trascurabile, che l’uovo rovinato in quella maniera venisse somministrato solo e me: povero bambino di 4 anni, che circa un anno dopo, solo per aver tentato di chiarire, autonomamente, un dettaglio grammaticale, rischiò di essere incriminato per la morte di Carla.
-“Stranoforte, vieni, che è pronta la merenda”
…Oh no…quella tazza io la temevo, più di un leone o di un serpente.
-“dai su, che ci metto anche il pane, vieni”.
Probabilmente all’epoca le galline facevano uova gigantesche, spesso anche più grandi di loro stesse, o magari la mamma si serviva da qualcuno che vendeva uova di dinosauro, dal momento che quelle merende non finivano mai (i dinosauri esistevano in un posto lontano, me lo aveva riferito Matteo, un bambino che abitava di fronte a casa nostra, con la faccia dietro la ringhiera del suo balcone. Anche su Matteo vi racconterò qualcosa…ricordatemelo eh).
Ho anche pensato che la tazza usata fosse magica e che quindi si svuotava solo quando la mamma lo decideva.
Ovviamente io non accettavo supino, ma cercavo di sviare l’attenzione su altre cose, sperando che anche la mamma, distratta, all’improvviso decidesse che ne avevo mangiato abbastanza e quindi la tazza si svuotasse automaticamente. Mi rifiutavo chiudendo la bocca, raccontando cose successe, chiedendo di andare a fare la pipì, poi la cacca, poi avevo sete…ma nulla la mamma non desisteva.
Bleah, doppio bleah, infinitissimo bleah di un bleah.
Un pomeriggio mentre la mamma aveva già in mano l’arma per torturarmi, la tazza, suonò il citofono.
Aleeee, pensai, speriamo che venga qualcuno che la distragga.
Era Margherita, una amica della mamma, alta, molto pratica nelle cose, corpulenta, chiassosa, simpaticissima e dal “vaffanculo” e dal “merda” facile, però lei poteva dirle quelle parole perché era grande.
-“Ciao Margherita, se aspetti un attimo do la merenda a Stranoforte e poi ci facciamo il caffè, ok?”
Si un “attimo” un bel tubetto di dentifricio…aspetta e spera cara Margherita, tu il caffè te lo bevi a notte fonda, di uovo oggi ne mangio meno del solito, pensai, o sennò te ne torni a casa e te lo bevi li.
Ma guarda un po’ la mamma, ha chiamato rinforzi.
-“Dai Stranoforte apri la bocca”
-“No. Uffa ma perché non mi dai un’altra cosa, oppure non me la dai proprio la merenda?”
-“Perché l’uovo fa bene, lo ha detto anche la dottoressa, o te lo sei già dimenticato?”
Che bugiarda. La dottoressa non ha detto proprio un bel niente, casomai era stata lei a dirle: “a merenda posso darglielo l’uovo alla coque?”, e la dottoressa rispose che andava bene. Non era stata un’idea della dottoressa. Se alla dottoressa invece avesse chiesto: “a merenda posso dargli tutte le patatine che vuole, o delle belle cucchiaiate grondanti di nutella purissima, o una insalatiera piena di gelato?” lei avrebbe acconsentito con la stessa espressione semimenefreghistica.
Intervenne Margherita.
-“Stranoforte dai, mangia così poi vai a giocare”.
Eh si bella, proprio! Vuoi che mangio in fretta così poi voi vi fate il caffè e vi rilassate, mentre io cerco di smaltire quel disgusto papillare. Nemmeno per sogno, non mangio. Tutt’al più ne mangio dei pezzetti piccolissimi, tipo che un cucchiaino lo svuoto in 5 mangiatine, così il caffè, cara Margherita, te lo vai a bere a casa tua, dissi nella mia testa.
Margherita accese la radio. Una radio grossa come un mattone, di color mattone, che pesava come un mattone, con una rotella grandissima sul davanti, che si trovava sulla credenza.
Iniziò a uscire musica.
-“Apri la bocca”, continuava risoluta la mamma.
Giusto per non indispettirla, la aprii, ma la richiusi dopo poco, al chiaro fine di fare entrare nel mio organismo il minor numero possibile di quelle molecole velenose.
Margherita era divertita. “Guarda che non gli piace, tra un po’ te lo mette per cappello, ma perché lo costringi?” disse alla mamma.
Ahh, bene, Margherita non era stata convocata dalla mamma.
-“perché l’uovo fa bene, ha le vitamine e poi lo ha anche detto la dottoressa”.
Avevo la bocca piena, e con la bocca piena non si parla, altrimenti l’avrei sbugiardata.
Margherita aveva trovato un canale di musica allegra.
La mamma tornò alla carica con un altro attacco alla mia bocca, che riuscii in parte a respingere, quindi distolsi per un attimo la mia speranzosa attenzione da lei. Quando rivolsi nuovamente lo sguardo…Margherita stava ballando. Teneva la radiolina in una mano, un po’ sollevata, e ballava.
Invece di continuare a difendermi, ballava. Sono tutti uguali i grandi.
Alzò il volume, e continuò a ballare senza ritegno. Portava le dita aperte a forbice davanti agli occhi e le faceva scivolare di lato, ondeggiava le braccia come una piovra, asimmetricamente.
Non appena finiva una canzone, ne cercava un’altra e ballava, imitando il cantante e facendo dei gesti magari che illustravano il testo della canzone.
Guardai preoccupato la mamma, ma cosa stava succedendo?
Anche la mamma un po’ ancheggiava, ma era sempre militarmente li. Lo sapeva che se avesse allontanato anche per un solo istante l’orrido pasto da me, per ballare, col piffero che ne avrei mangiato ancora.
Alle terza cucchiaiata Margherita era scatenata, usciva dalla cucina e rientrava ballando. La mamma rideva, ma io ero preoccupato, cosa c’era da ridere? Perché non se ne andava a ballare a casa sua? Ma non si rende conto che con quelle scarpe magari poteva disturbare la signora di sotto? Perché non posava la radio, che poteva anche cadere per terra?
Si, ammetto che qualche movimento a volte mi faceva un po’ ridere, tipo quando entrava in cucina di spalle saltellando all’indietro e muovendo quel culone. O quando alla fine della canzone ringraziava e faceva l’inchino, col fiatone e se ne andava col classico passo degli attori degli anni sessanta.
Mi ringraziava inchinandosi o portandosi le mani al petto e socchiudendo estatica le palpebre. Ma grazie di cosa? Boh.
La cucina era piena di Margherita superstar. Era una discoteca. “Benvenuti al Frenesy”, diceva Margherita, ora balliamo.
All’improvviso successe il miracolo, che entrambe stavano chiedendo in ogni modo.
Margherita trovò una canzone che io trovai bellissima, che mi faceva venire i brividi.
Le onde sonore di quella canzone andarono a colpire i miei gangli nervosi e attivarono dei circuiti metabolici tali, che l’uovo entrava nel mio organismo oramai quasi per osmosi. La mamma avvicinava il cucchiaino e io trangugiavo, ipnotizzato da quella melodia.
Margherita ballava quella canzone assumendo espressioni ed atteggiamenti per interpretarne il testo.
Alla mamma non sembrava neanche vero. Rischiò, e si mise, tra una cucchiaiata e l’altra, a ballare anche lei, schiena a schiena con Margherita.
Le due si allontanavano, si giravano di scatto e si riavvicinavano mettendo le braccia l’una verso l’altra, puntandosi come per prendere la mira, e poi facendole roteare verso l’alto, prima uno e poi l’altro braccio, agitando le mani e scotendo il corpo. Margherita con la radiolina in mano, la mamma con la tazza in una mano ed il cucchiaino nell’altra.
Tutto si muoveva, tutto suonava, tutto luccicava, tutto era buono, io stavo anche un po’ volando.
Quella volta la tazza si svuotò prima.
Di quella canzone ricordo solo il titolo “La finta tonta”.
Se qualcuno avesse spiato dalla finestra, magari che ne so, un satellite spia, avrebbe visto due orgogliose e grintose trentenni "ye-ye", color pastello (o in bianco e nero, nel caso del satellite spia), pettinate a casco di banane con codine inferiori laterali sporgenti all’insù e ciuffi semicircolari sulla fronte, che ballavano scatenate attorno ad un tavolo di cucina, sul quale era seduta una perplessa creatura, con le gambe a penzoloni racchiuse in calzine traforate di un bianco più bianco del bianco che più bianco non si può. Nessuno però riuscirà mai a scoprire come fecero a convincere quel bellissimo bambino a trangugiare quella sostanza giallognola contenuta in una enormissima tazza di colore blu a pallini bianchi, nonostante i convegni, le commissioni istituite ad hoc ed gli storici interpellati ed intervenuti.
In qualche polveroso archivio magari c’è un nastro videoregistrato, che spero venga ritrovato prima o poi.
...
Negli anni a venire spesso ho ripensato a quella canzone, quanto avrei dato per poterla risentire, oltretutto manco me la ricordavo, ma doveva essere bellissima, visto le sensazioni che ingenerava.
Nell’estate del 1996, durante un periodo tragico della mia vita (secondo, in ordine di tragicità, alla malattia), mentre cercavo a casaccio tra le stazioni del mio walkman, all’improvviso la risentii...era lei!!! Non ci potevo credere!! SIIIII era lei!! Dopo tutto quel tempo!! wowwoowwwwww
Però…insomma…che canzonetta melensamente insipida, ma cosa ci trovavo di bello?
La canzone finì, e io avevo un po’ gli occhi umidi.
Forse in gola sentivo un po’ il gusto di uovo alla coque.
...
Quella era (ed è) la canzone che rende sopportabili anche le cose più drammatiche, arriva quando meno te lo aspetti e risolve tutto, o almeno ti aiuta a risolvere.
Con l’avvento dell’informatica e dei corrieri elettronici e dopo notti insonni sono riuscito finalmente a trovare quella canzone, che racchiude tutto lo spirito di quegli anni.
Siccome ho ordinato il juke-box, quando esso mi perverrà, ve la inserirò, affinché voi possiate sentirla.
E’ fatto obbligo assoluto di ballarla, altrimenti non funziona.
Ogni eventuale commento negativo su tale deliziosa canzone, scivolerà silenziosamente sul piano inclinato della mia indifferenza.
Sia ben chiaro, non mangio uova alla coque, giusto per informarvi.