Riflessioni.
Finalmente mercoledì. Il suo mercoledì. Marta amava pianificare la sua vita nei minimi dettagli, e il mercoledì era destinato alla passeggiata sulla sua scogliera preferita. Dalle 15 alle 16,30, prima di ritirarsi nella sua casetta dove avrebbe proseguito le faccende di casa. Usava quella passeggiata per riflettere sulle tante questioni. Era single, Marta, senza battiti forti di cuore. Single, con un bel lavoro che le dava immense soddisfazioni e a cui si dedicava con anima e corpo. Forse era colpa sua che non pensava un po’ di più a se stessa, che non usciva troppo spesso, preferendo una serata davanti al caminetto con un buon libro, o, nella bella stagione, in giardino sul suo amato dondolo che aveva da quando era piccolina, a sorseggiare una bibita fresca sempre col suo immancabile buon libro. A queste cose pensava Marta, mentre metteva delicatamente un piede davanti all’altro, tra quelle pietre che oramai conosceva a memoria ma che ogni volta le riservavano sempre un’emozione diversa. A ogni passo sentiva l’energia della natura, che l’ascoltava ma non la giudicava né dava opinioni ma la invitava a guardarsi dentro, nel suo cuore. Ecco il dilemma: cuore, testa o fisico? Aveva provato a parlarne con le amiche di scuola, quelle di sempre, ma aveva percepito quella banalità, quei luoghi comuni, che non le erano stati di alcun aiuto. Il mare quel giorno era un po’ impetuoso e gli schizzi nebulizzati di quell’acqua così salata le irroravano la faccia e l’anima. Quel sale che lei avrebbe voluto avere tutto per sé, ma che doveva condividere, solo in quel momento, col mare e col vento. Ecco: mare e vento, l’uno che si immerge, che si compenetra con l’atro. Ma lei, chi era? Il mare, dolce, sconfinato e crudele, o il vento impalpabile, libero e solo apparentemente lieve? All’età di 32 anni ancora lei, Marta, la forte, la sbruffona, non si era bene definita. E ne soffriva.Guardava l’orizzonte stringendosi nel suo cappottane informale, dal buon odore di casa, e si chiedeva perché lo sguardo non potesse andare oltre quella linea, che poi di fatto non c’è. Ecco il segreto: capire che quella linea è solo fittizia e immaginare oltre. E io credo di farcela, devo farcela, e capire il senso della mia vita, finché sarò giovane, finché potrò ancora sognare un domani con figli, compagno che mi stupisce ogni giorno, e nipotini, cui dare il mio affetto e la mia esperienza. Ma non devo correre troppo, è troppo facile immaginare un domani radioso senza risolvere il presente incerto, grigio, tumultuoso come questo mare che riesce sempre a interpretare i miei sentimenti, che mi coccola e mi nutre a modo suo, come nutre i pesci che ospita.Sullo sfondo il faro, oramai mi riconosce, e io gli sorrido. Non hanno incerte zze loro, il faro, il mare, il vento e se le hanno riescono a incanalarle, beati. Giro su me stessa e mi riavvio verso la mia casetta, unico mio nido d’amore, fino ad oggi. Almeno. So che quando appare il faro sono a metà della mia passeggiata, che oggi finalmente dopo tanto dedico a me stessa, ma i dubbi dell’andata non trovano risposta al ritorno, solo quella frase che mi ossessiona. Quella frase che sento nella risacca del mare e nel fruscio – beffardi? – del mare: guardati dentro e parti da te stessa. Fosse facile. La lacrima oggi non ce la fa a restare dentro esce, ma il vento la spazza via, assieme alle goccioline del mare. Se sapessero quelle persone che mi vedono così sicura, indipendente, determinata, sbarazzina. Se lo sapessero che sono umana anche io. Rientro nella mia casetta e il suo tepore, che a volte reputo stupido, mi accoglie. Nella cassetta della posta un bigliettino. La solita pubblicità penso. Ma prima di buttarlo via lo voglio leggere: “Marta, lo hai capito?” E segue un numero di telefono e un petalo di rosa dentro il biglietto. Riconosco la calligrafia e anche il numero. Chiudo gli occhi e quella lacrima di prima riaffiora, ma di felicità. E riconosco anche di avere capito che ci sei solo tu, il meglio, per me.
Piccoli gesti.
Ieri sono andato al parco con mio figlio Rodolfo di 6 anni, volevo restare da solo con lui, i rapporti famigliari in questi ultimi tempi stanno degradando in maniera assurda.
Arrivò l’ora della merenda: ci siamo portati delle cosine buone, semplici e genuine preparate da mia moglie: un panino col formaggino e un succo di frutta per lui, un panino con salame e fontina e acqua naturale per me.
Accanto a noi due mamme, le conoscevo di vista, le mogli di un ingegnere e di un avvocato di grido, continuavano a spettegolare senza prendersi cura dei figli, che nel frattempo disturbavano e molestavano gli altri bambini, ma non il mio. Anche loro fanno merenda: patatine in abbondanza per tutti e cocacola. I bambini anzichè mangiare seduti e composti continuavano a correre spargendo ovunque il contenuto delle confezioni.
Di fronte a me invece una mamma, con abiti un po’ passati di moda, ma puliti e ordinati era seduta dignitosamente sulla panchina, mentre sua figlia giocava in disparte, con alcune bamboline. All’ora della merenda quella signora prese da una busta in plastica un piccolo involucro che conteneva delle mele e delle pere. La bambina attese con educazione che la mamma le permettesse di scegliere e lei prese una pera.
Di colpo sentii piangere, mi voltai e vidi il figlio dell’avvocato che reclamava a gran voce un gelato. Poco dopo lo vidi arrivare con un gelato enorme, che dopo poche leccate buttò per terra. E subito tornò alla carica dalla la mamma che gli ha comprò le caramelle.
Rodolfo invece piano piano fece amicizia con quella bambina, che gli offrì un pezzo di pera, e lui un morso di pane e formaggino. Poi si misero a giocare assieme, lei metteva le sue bamboline sui camion di lui e ogni volta che si spostavano si davano la manina. Giocavano tranquillamente lui e Carolina, scoprii il suo nome perché la mamma la chiamò dicendole di non essere troppo invadente.
Alle 17,30 arrivò un ragazzo con abiti di lavoro e una faccia stanca, ma sorridente con una autovettura vecchia ma ordinatissima, sulla quale salirono Carolina e sua mamma, non prima di salutarmi e ringraziarmi per la pazienza avuta. “Si figuri signora, sua figlia e un angioletto, non come…” e ho fatto segno verso le due mamme.
Presto venne l’ora di rientrare anche per noi, prendemmo il primo tram e arrivammo nella nostra casetta dove Rodolfo corse incontro alla mamma che ci attendeva. La abbracciò e le iniziò a raccontare della bambina che aveva conosciuta. La mamma lo stava ad ascoltare con molta serietà e mi fece l’occhiolino di nascosto.
Rodolfo mentre faceva il bagnetto prima di cena mi chiese se saremmo tornati anche il giorno dopo al parco. “No, Rodolfo, si deve anche stare un po’ a casa o andare a passeggiare altrove”. “Peccato, replicò lui, mi aveva detto Carolina che mi avrebbe portato delle pere, sai papà sono buonissime, suo papà le vende”. Le vende? Quella parola mi fece ricordare dove avevo visto il papà di Carolina. Al mercato ortofrutticolo! Ecco dove!
Per cena la mamma aveva preparato un’ottima pasta al forno, sua specialità, e mi venne un’idea: “Rodolfo metti il cappottino”. Sapevo che la famiglia di Carolina abitava poco distante da noi, in un’alloggio popolare. Presi un’abbondante porzione di pasta al forno e in un attimo fummo da loro, mandai avanti Rodolfo, con quel pacchettino che sembrava più grande di lui. “Brucia un po’, mi disse in un fil di voce” “Per Carolina, questo e altro” risposi io. Gli si illuminarono gli occhi. “E’ la casa di Carolina?” Si mise tutto impettito e quando venne ad aprire la signora gli porse il pacchetto che avevamo preparato per loro. “ Ecco è per voi”.
La signora restò colpita, diedi uno sguardo all’interno della casa, era arredato poveramente ma tutto era lucido e pulito.
“Aspetta gioia” gli disse la mamma di Carolina, che dopo pochi attimi arrivò con un cestino pieno di pere. “Eccotele” gli disse e gli diede un bacino sulla guancia.
Quella sera mangiammo un po’ meno pasta al forno, ma le pere più buone del mondo.